Lezioni di storia

Ho sempre creduto che la necessità di prender ripetizioni in storia sia sintomo di poco lodevole pigrizia, o peggio ancora di quella densa ottusità che contraddistingue molti ragazzetti d’oggi, il cui occhio lento e offuscato di rado promette una conversazione entusiasmante. Tuttavia, finita l’università mi resi presto conto che ad attendermi non c’era alcun futuro, e preso dallo sconforto stampai alcuni volantini con i quali mi offrivo di dar ripetizioni nella disciplina in cui mi ero appena laureato: storia, per l’appunto. Non nutrivo in realtà alcuna speranza nei confronti dell’intera questione, la quale era più che altro un modo per dimostrare a me stesso che mi stavo dando da fare e che non mi arrendevo facilmente alla vita. Così quando squillò il telefono e la voce sommessa d’un ginnasiale mi domandava se ero disposto a cominciare già l’indomani, dovetti fare uno sforzo per credere alle mie orecchie. Ci accordammo per le 9:00 della mattina successiva.

Quando un trillo educatamente breve del campanello annunciò l’arrivo del mio nuovo allievo, mi trovai di fronte un ragazzino per bene che non sembrava particolarmente segnato da quella malattia che gli esperti chiamano adolescenza, e che molti dei suoi coetanei avevano contratto. Fattolo accomodare, cominciai subito con la prima lezione, che avevo ideato la sera prima. Volli iniziare introducendo l’idea stessa di storia e la sua utilità, prima di riversare nel giovane quel fiume di guerre, imperatori, paci e battaglie che solitamente si insegnano a scuola. Gli spiegai l’importanza di comprendere e di ricordare il passato, che con ciclica puntualità torna a farci visita nel presente. Il ragazzo ascoltava con grande attenzione e tracciava schemi e annotazioni sul suo quaderno, facendo mostra di una diligenza di cui mi compiacqui segretamente. Finita la lezione mi dissi molto soddisfatto e lo invitai a tornare il giorno successivo alla stessa ora, avendo intenzione di iniziare con lo studio della Grecia di Pericle.

L’indomani lo stesso discreto scampanellio m’informo del suo arrivo, e io fui contento di far entrare quel giovanotto così gentile e volenteroso. Prima di cominciare con Pericle decisi di fargli qualche domanda sulla lezione del giorno precedente per scoprire quanto ne sapesse ricordare. Con mia grande sorpresa egli restò in silenzio, seguitando a fissarmi con la stessa espressione educata che non aveva mai abbandonato il suo volto: non ricordava nulla. Quando fu chiaro che nella sua memoria non v’era più neanche un rimasuglio delle mie parole, e che ogni cosa era stata sciacquata via con la cura di una lavandaia, mi prese un certo sconforto. Eppure non mi volli perdere d’animo e, rimandato Pericle al giorno successivo, ricominciai tutto daccapo e di nuovo gli spiegai l’importanza di comprendere e di non dimenticare il passato, e di come la storia si ripresenti ciclicamente nel presente. Egli non mi deluse, prestò grande attenzione e riempì il suo foglio di appunti. Ne fui sollevato e imputai quel primo fallimento all’emozione e alla novità della materia.

Alle nove in punto del giorno successivo il campanello suonò brevemente, come non volesse dar fastidio a nessuno. Feci accomodare il ragazzo, sempre sorridente, e cominciai con le domande. Non senza una certa stizza scoprii che Pericle avrebbe dovuto aspettare ancora una volta. Non ricordava assolutamente niente, il quaderno era tornato intonso, e così la sua mente: candida come un fazzoletto appena lavato. Mi sforzai di non perdere la pazienza e ripetei per la terza volta la prima lezione. Prima di congedarlo gli raccomandai più volte di studiare per bene, e l’avvisai che l’avrei interrogato. Mi assicurò che non mi avrebbe deluso e, ringraziatomi, se ne andò.

Inutile dire che anche il giorno successivo egli non proferì una sola parola. La sua mente era di nuovo svuotata di ogni ricordo e il ragazzo non seppe far altro che fissare le piastrelle in silenzio. Mi infuriai e gli dissi chiaramente che non sarebbe più dovuto venire. Se non aveva la minima intenzione di studiare non vi era motivo alcuno perché sprecasse così il suo tempo e, non da ultimo, anche il mio. Ammisi di essermi ingannato sul suo conto, evidentemente faceva parte anch’egli di quegli studenti svogliati e immeritevoli per cui “andare a scuola” è una semplice espressione di moto a luogo. Egli si mostrò molto dispiaciuto, quasi non si aspettasse la mia reazione, ma non disse nulla e se ne andò afflitto. Mi scoprii molto sollevato dal non aver più il pensiero delle lezioni. Per quanto mi riguardava, Pericle poteva tornarsene in Grecia, e io decisi che non avrei mai più dato ripetizioni di storia in vita mia. Quella sera mi addormentai serafico, ignorando cosa sarebbe successo di lì a poco.

La mattina dopo, esattamente alle ore nove, stavo facendo colazione quando udii suonare alla porta. Credetti che il postino si fosse finalmente deciso a consegnarmi una lettera che aspettavo da tempo e andai ad aprire sovrappensiero. Mi trovai davanti lo stesso ginnasiale dei giorni precedenti, con lo stesso sorriso cordiale; stava sulla soglia aspettando che lo facessi entrare, come se nulla fosse successo. Confesso che quella tenacia mi colpì molto e, in preda a una certa confusione, lo feci accomodare. Il ragazzo non pareva minimamente turbato, come fosse lì per la prima volta. Si aspettava che gli ripetessi la lezione, cosa che feci, non so ancora se mosso a compassione o non sapendo cos’altro fare.

Da quel momento in poi non so più contare i giorni. Ogni volta si ripeteva la stessa surreale scena. Il ragazzino non ricordava assolutamente nulla. Quando persi di nuovo la pazienza e ricominciai a dirgli di non tornare, egli dimenticò anche quello. Ogni mattina suonava il campanello e sia che io lo cacciassi a male parole, sia che gli ripetessi la medesima odiosa lezione, potevo star certo che l’indomani saremmo tornati al punto di partenza. Presto la situazione divenne insostenibile, mi pareva di vivere perennemente lo stesso giorno e di non poter scampare all’inevitabile ripetersi del nostro appuntamento. Tentai ogni cosa per estirparlo dalla mia vita ma tutto fu vano. Egli non aveva memoria: ogni volta era la prima e, inevitabilmente, la stessa.

Spinto dalla disperazione, decisi di mettere fine a quella follia una volta per tutte. Dopo lunghe riflessioni, convenni che non potevo far altro che ucciderlo. Non senza difficoltà riuscii a procurarmi una fiala di cianuro, che tenni nascosta in un cassetto della credenza per qualche tempo, mentre raccoglievo il coraggio per quell’atto estremo. Del resto, arrivato a quel punto non avevo nessuna intenzione di tornare indietro. Così una mattina, prima di congedarlo dopo la solita lezione, gli offrii un bicchiere d’acqua che avevo nascostamente avvelenato. Mentre lo guardavo allontanarsi, al pensiero che di lì a poco sarebbe stramazzato per terra, temevo che il senso di colpa mi avrebbe torturato. Al contrario, quella notte tornai finalmente a dormire come un tempo. Non potevo credere di essermi definitivamente liberato di quell’individuo che pareva non avere memoria, e soprattutto di poter ricominciare a vivere la mia vita normalmente.

Sorseggiavo euforico il caffè mattutino e facevo piani per il mio futuro quando suonò il campanello. Restai pietrificato, mentre una sensazione di angoscia si impadroniva di me. Aprii lentamente la porta e con indicibile orrore scoprii quello che già sospettavo: era lui. Con lo stesso sorriso da bravo ragazzo attendeva che lo facessi entrare per ricominciare quell’incubo da capo. Com’era mai possibile? Come aveva potuto resistere al veleno? Raddoppiai, triplicai le dosi ma ogni sforzo si dimostrò vano. Credetti d’impazzire. Egli non ricordava nulla, non ricordava di essere stato avvelenato, probabilmente non ricordava neanche di essere morto e tornava ogni giorno a sentire la stessa lezione di storia, condannandomi a quell’eterno presente che saltava indietro con la regolarità di un vecchio giradischi.

Quando fu chiaro che non vi era alcuna speranza di fuggire da quella maledizione e che, intrappolato senza via di scampo, ero il più miserabile dei prigionieri, l’idea di togliermi la vita giunse come una liberazione. Non avrebbe forse Prometeo salutato la morte come suprema salvatrice, quando l’aquila gli divorava giorno dopo giorno il fegato? La condanna più terribile non è morire, è piuttosto essere costretti a vivere senza poterlo veramente fare. La mia ultima sera fu un poco mesta, ma ero assolutamente determinato a metter fine a quell’incubo che come un serpente mi aveva stretto nelle sue spire. Il sapore di mandorle amare del cianuro mi fece compagnia durante gli ultimi istanti, e quando vidi la stanza farsi sempre più buia e scomparire per sempre non potei fare a meno di sorridere.

Fui svegliato all’improvviso dal trillo del campanello che, come sempre, fu breve e molto discreto.