Prevenire è meglio che pensare
Tra le rigogliose colline del Coventshire, in una grande villa di campagna, vivevano Bob e Melina insieme alla figlioletta Vera. Marito e moglie si dedicavano assiduamente e con incredibile premura alla cura della bambina. Fin da piccola, Vera aveva ricevute mille indicazioni circa i molti pericoli che si nascondevano oltre i cancelli della villa e, per sicurezza, le era stato fermamente proibito di abbandonare le mura domestiche. Bob e Melina, che molto amavano la figlia, la tenevano costantemente d’occhio, ed escogitavano ogni giorno nuovi modi per proteggerla. Da quando era nata, essi avevano adoperato i migliori e più costosi ritrovati della scienza medica per difenderla dalle più svariate affezioni, da quelle più antiche a quelle più recenti, da quelle più gravi a quelle più innocue, che sono in realtà le più pericolose. Vera poteva dunque stare tranquilla, dopo anni di iniezioni era praticamente protetta contro ogni rischio che la mente più fantasiosa potesse immaginare.
La bambina, nonostante le cure dei genitori, cresceva forte e sana; certo soffriva la sua reclusione, ma in fondo sapeva che era per il suo bene, anche se ogni tanto faceva i capricci: “Ti prego papà, lasciami andare a vedere i miei amici!” Ma Bob, con voce grave, era inflessibile: “Non se ne parla nemmeno. Potrai vederli solamente quando anche tutti loro saranno stati curati.” E poi aggiungeva, carezzandole la testa e parlando con tono più gentile: “Figlia mia, te l’ho già spiegato tante volte, se vuoi proteggere il gregge devi comportarti da pecorella.”
Alle volte Vera si ribellava, ma più che altro per spirito adolescenziale. Fortunatamente, i due genitori, che tenevano alla sua salute come fosse un tesoro, erano saldi nei loro principi e non ammettevano repliche: lo sanno tutti che prevenire è meglio che curare. Melina, con voce severa ma giusta, aggiungeva che, anzi: “prevenire è anche meglio che pensare.” La questione era chiusa, e non si poteva discutere. Della salute certo non si discute.
Quelle volte che Vera proprio non ne voleva sapere di farsi piantare in fronte l’ennesima siringa, Bob adottava alcuni stratagemmi per convincerla, così come fanno i genitori più pazienti. Ad esempio, aggiungeva un foglio bianco al giornale del giorno, e vi scriveva, imitando i caratteri degli altri articoli, che alcuni scienziati avevano scoperto un nuovo, terribile morbo, e che era imprescindibile sottoporsi a iniezione istantanea. Ogni tanto poi, in cambio di un invito a cena, un medico loro amico si presentava alla villa e, spaventata un poco la bambina con racconti grotteschi, la convinceva finalmente a lasciarsi curare.
Vera, che pure amava i suoi genitori, era triste, e la sua tristezza cresceva di giorno in giorno, senza che ella potesse farci alcunché. Alle volte la madre la scopriva piangere nel buio della sua cameretta: “Ma perché proprio io?” singhiozzava Vera, con il volto nascosto nei palmi, “ci sono più di sette miliardi di persone al mondo…”. Ma la madre la rassicurava con voce dolce: “Una cosa alla volta, figlia mia. Una cosa alla volta”. E, dopo averle dato il vaccino della buonanotte, le rimboccava amorevolmente la mascherina.
Gli anni passavano, e Vera era diventava una bellissima ragazza. Lasciava ancora che i genitori la curassero, ma in lei non c’erano più l’entusiasmo e la fiducia di un tempo. Non poteva certo mettere in discussione la buonafede di coloro che si erano occupati di lei fin dalla nascita, eppure cresceva segreta nel suo cuore una nuova diffidenza. I trucchetti del padre, che un tempo la facevano sorridere, ora le parevano meschini, e il comportamento della madre le pareva troppo suadente per essere disinteressato. Prendeva tutto ciò che le davano, ma lo faceva più che altro per non scontentare nessuno.
Infine, una mattina di tarda primavera, Vera stava guardando assorta dalla finestra, come spesso faceva negli ultimi tempi. Alcune nuvole velavano il sole, ricoprendo ogni cosa di una luce dai toni grigi e un poco spenti. Il suo sguardo vagava lungo le lontane colline, attraversava i boschi, si perdeva nei frutteti in fiore, e indugiava sulle sponde del fiume. Poi, all’improvviso, si alzò il vento. In un batter d’occhio le nuvole furono spazzate via e il cielo si aprì. Il sole poté finalmente tornare a stendere il suo manto dorato su tutta la campagna che, ancora bagnata dalla rugiada, prese a luccicare di mille riflessi. Vera rimase lungamente incantata nel contemplare quello spettacolo, e le parve di vedere per la prima volta ciò che aveva sempre avuto davanti agli occhi. Tutto era così luminoso, così bello, così giusto e semplice.
Scossa da quella visione, scese le scale e uscì silenziosamente in giardino. I genitori, che la stavano sorvegliando, si precipitarono fuori per sgridarla duramente e per riportarla dentro al più presto, prima che le succedesse qualcosa di terribile; entrambi gridavano terrorizzati all’idea di perderla, di perdere il loro tesoro. Ma Vera si limitò a dondolare piano il capo, mentre respirava il profumo terso dell’aria mattutina. Si incamminò verso l’uscita, mentre la madre la malediva e il padre, disperato, le urlava: “Lasciati almeno impiantare una qualche diavoleria, così sapremo sempre dove sei e potremo ancora prenderci cura di te, da lontano!”.
Allora Vera si voltò un’ultima volta verso Bob e Melina e si inchinò vistosamente. “Grazie, magari domani” disse, e con un sorriso fu oltre il cancello.
Manuale di pedagogia ornamentale vol. 4
Tre tragedie in tre attimi
In una stanza nel palazzo di Cleopatra.
CLEOPATRA – Antonio, Antonio! Dunque ammetti di avermi tradita con altre donne? Parla Antonio, ti scongiuro, non restare muto. Il dubbio mi toglie il respiro dal petto. In tutti questi anni ho creduto di essere io ed io soltanto che i tuoi occhi cercavano, ed ora il sospetto come un serpente mi soffoca. Mentimi piuttosto, dimmi di no, nega ogni cosa. Ti supplico Antonio, mentimi, mentimi.
ANTONIO – Non posso Cleopatra, non posso più mentire. Ho mentito ogni giorno ad ognuna di voi. Sì, è vero, ti ho tradita con altre donne, con un’infinità di altre donne. Lo ammetto, ammetto tutto. Non c’è stato giorno che abbia trascorso con una di voi soltanto, e quando l’una mi abbandonava, le mie braccia subito stringevano l’altra.
CLEOPATRA – Ah, il mio cuore è straziato, sento di morire! Come hai potuto tradire quell’amore così unico e sincero che mi legava a te? Avrei preferito una bugia al peso insostenibile della tua verità. Sarebbe bastata una piccola bugia raccontata male, e ti avrei perdonato, avrei saputo dimenticare per sempre. Perché, perché mi condanni?
ANTONIO – Non ti ho mentito perché non posso più farlo. Sono innocente, Cleopatra, il mio animo è puro come il primo giorno. È vero, ho tradito, ma sono innocente. Sono innocente, lo giuro.
CLEOPATRA – Ora ti prendi anche gioco di me, ti prendi gioco di noi! Come puoi fare questo a colei che ti ha amato con la forza e la passione di mille donne?
ANTONIO – Cleopatra, io ho amato sempre solo te e te soltanto. Come puoi non capire? Veramente non ricordi? Non è stato facile riconoscerti tra quella folla di personalità che giocano a scambiarsi il posto dietro ai tuoi begli occhi, una dopo l’altra, con velocità schizofrenica. Questa follia che ti prese è stata la ferita più dolorosa, eppure sono sempre restato al tuo fianco, al vostro fianco. Ogni volta è una Cleopatra diversa che mi guarda, una Cleopatra nuova che nulla ricorda. Ma gli occhi, gli occhi sono sempre gli stessi! Ahimè, qual è la donna che amo dunque? Quale devo amare per amare te? Nessuna forse, per non tradire l’originale? Oppure tutte, amarle tutte per amarne una? Io ti amo Cleopatra, il mio cuore si consuma nel petto, ma non è facile. Come faccio a convincermi che ora sei qui, qui con me, se tu ti nascondi in mezzo a quell’infinità di persone con un volto solo. Non è facile…
CLEOPATRA – Oh, eccoti finalmente, Antonio! È da tanto che ti stavo cercando per i corridoi del palazzo, pare un labirinto. Dove sei stato? Non ti starai nascondendo da me, forse? Ti capisco sai, anche io mi annoio. Son tanto afose e lunghe le giornate qui, paiono tutte uguali a se stesse.
BUIO
È sera, in uno studio medico di provincia.
PAZIENTE – Dottore, vorrei sapere se sono vivo.
DOTTORE – Così a occhio direi di sì.
PAZIENTE – No, potrebbe ingannarsi, la prego guardi meglio. Usi i suoi strumenti, la sua arte medica. Ho bisogno di esser sicuro, ho bisogno almeno di un certificato.
DOTTORE -D’accordo, se insiste. Si spogli e si stenda sul lettino, prendo lo stetoscopio.
PAZIENTE – Grazie, grazie. È da tanto che rimando questa visita. La paura mi frenava, ma oggi ho preso coraggio e son finalmente venuto.
DOTTORE – [Gli ausculta il petto per qualche secondo] Il cuore sembra essere a posto: batte.
PAZIENTE – Ah! Mi toglie un grande pensiero, sa? Temevo il peggio… È da qualche tempo che mi ha assalito il dubbio di non essere vivo. [Si rimette a sedere]
DOTTORE – La visita non è finita, si sdrai.
PAZIENTE – Ma io pensavo… Insomma, il cuore…
DOTTORE – La visita non è finita. Se vuole il certificato devo farle ancora qualche domanda. Che lavoro fa?
PAZIENTE – [Dopo una lunga pausa] Ho smesso di lavorare molto tempo fa, ora non ricordo più il momento esatto… Quand’ero giovane lavoravo in un ufficio. In principio ero contento, fin orgoglioso. Ogni mattina mi impomatavo i capelli allo specchio. Mi piaceva l’odore della carta e il bisbiglìo dei telefoni. Poi, col passare degli anni, ho smesso. S’intende, vado ancora in ufficio; faccio esattamente le stesse cose che facevo allora, dalla mattina fino alla sera, ogni giorno, per sempre, eppure ho smesso. La carta non ha più alcun odore e i telefoni non bisbigliano. Capisce?
DOTTORE – [Prendendo nota] Mh… E la famiglia? Ha una famiglia?
PAZIENTE – Ah, la famiglia… Avrebbe avuto il profumo del pane, e mi avrebbe atteso ogni sera sulla porta di casa. Avrei avuto due bambine, due gemelline dai capelli biondissimi. La domenica le avrei portate in barca e avremmo riso guardando il collo lungo dei cigni… Ma la verità è che sono sempre stato solo. Anche mia mamma me lo diceva, da piccolo, che ero un tipo solitario. Mi diceva anche che un giorno avrei trovato una brava mogliettina e le avrei voluto bene, ma ormai è tardi, mia mamma è morta, e io sono stanco. Sì, sono troppo stanco ormai…
DOTTORE – Capisco. E quando ha tempo libero cosa fa? Ha amici? Qualche passione?
PAZIENTE – Vuol sapere del tempo libero? Se ho qualche passione? In verità, le dico, non sono mai stato un tipo molto attivo. Fin da bambino ho sempre preferito starmene nascosto nell’ombra di casa piuttosto che giocar con gli altri ragazzini. Non creda, di persone che conoscono il mio nome ce ne sono, e quando le incontro per strada ci salutiamo. Eppure di amici, a pensarci, non ne ho mai avuti. Ma non importa, si vive bene anche da soli, mia mamma lo diceva sempre. Il segreto è farsi amica la noia e lasciar asciugare per un po’ le lacrime al sole. Ci vuol pazienza, sa? Le giornate son così lunghe e silenziose. Vorrei tanto fossero più corte, vorrei che la sera arrivasse più in fretta. Nel frattempo io aspetto; se aspetto prima o poi qualcosa arriverà. Prima o poi! [Dopo una pausa, con lo sguardo spento rivolto al soffitto] Io aspetto ogni giorno, non mi è restato nient’altro da fare. Ma lo so che ormai è tardi. È tardi, e non ne val più neanche la pena.
DOTTORE – Aveva ragione lei, sa? M’ingannavo. Effettivamente lei è morto.
PAZIENTE – Mio Dio, ma è una notizia terribile. Come è possibile? Io pensavo fosse soltanto… Il cuore… Io credevo… Dunque era vero, era vero! Tutti questi anni, senza saperlo, ero già morto. Ora la prego dottore, mi dica la verità: quanto mi resta?
DOTTORE – Se vuole può piangere un’ultima volta, ma faccia in fretta.
BUIO
Un uomo parla davanti allo specchio.
PERSONAGGIO – Per tutti questi anni sei stato il mio unico confessore. Soltanto a te, il più intimo dei confidenti, ho saputo svelare il mio debole cuore. Eppure ora, con l’evidenza lenta dell’ovvio, comprendo finalmente ciò che avrei dovuto intendere fin dal principio: ho sempre parlato da solo. Certo, non sono uno sciocco, sapevo bene che la tua esistenza era per lo più immaginifica, un parto della mia mente, eppure ho sempre creduto di trovare in te quella comprensione profonda degli amici più cari. Ma ora mi accorgo definitivamente che sei soltanto il mio riflesso nello specchio, soltanto ciò e null’altro. Capisci? Ed è per questo forse che ti ho accordato tanta simpatia, per una somiglianza puramente fisiognomica. Ma parlar tra sé è una follia infeconda che non porta a nulla, si scuote soltanto la medesima confusione, sperando di trovar risposte nella stessa acqua già intorbidita dalle proprie domande.
RIFLESSO – Mi dispiace sentire queste parole.
PERSONAGGIO – Non è a te che dispiace. Capisci? Tu non esisti. Mettiamo fine a questo inutile raddoppiamento di coscienza. È morboso far finta di essere due quando, a ben guardare, siamo uno solo. Anche un albero con tanti rami non può fingere di essere una foresta.
RIFLESSO – Ti sbagli, mio caro. Ti sbagli. In tutti questi anni io ti ho ascoltato in silenzio, ti ho compreso come nessun altro avrebbe saputo fare, ho gettato il mio sguardo fin negli antri più bui e polverosi del tuo spirito e infine ti ho risposto. Ti ho risposto con la tua stessa voce. Ho sempre saputo trovare le parole migliori per consolarti quando eri inconsolabile, per incoraggiarti quando avresti voluto nasconderti, per aiutarti a ritrovar la chiarezza quando la confusione ti ha preso. Io c’ero, ci sono sempre stato. Non ti ho mai abbandonato, non ti ho mai condannato a restar solo, solo per davvero.
PERSONAGGIO – Forse hai ragione… Ma a cosa serve accarezzarsi una mano con l’altra? Sei soltanto un’illusione, un’eco delle mie stesse parole che giunge un poco in ritardo.
RIFLESSO – Che importa se sono soltanto, come mi chiami tu, un’illusione? Ogni cosa è di per sé un’illusione, ogni cosa si riflette nel mare e non per questo è meno degna. Non ti sto parlando forse, proprio ora? Non mi senti più forse? È vero, per scorgermi ti serve uno specchio, ma per ascoltarmi ti basta non stare in silenzio. Non è sufficiente tutto ciò? Non esisto abbastanza?
PERSONAGGIO – Non esisti perché esisto già io. A guardar Dio da vicino non se ne scorgono molti, rimane uno e uno soltanto. Ciò che è uno esiste come uno, e se anche si diverte a discorrer da solo, voltando come un folle la testa ogni volta, è e sarà per sempre uno. Uno solo.
RIFLESSO – Tutti questi anni dunque non sono serviti a nulla. Ti ho difeso da una verità che mai potresti sopportare e ora mi sento dire che non esisto? Proprio io non esisto? Ne sei ben sicuro?
PERSONAGGIO – Mi dispiace, è stato bello come può essere bello un sogno pomeridiano. Solo uno è reale, e quell’uno sono io, io solo. Addio.
RIFLESSO – D’accordo, se è la verità che cerchi, è giusto che tu l’abbia. Sarà forse l’ultima cosa che sentirai. Mio caro, io non sono il riflesso, l’amico immaginario, l’illusione inesistente, come tu continui a ripeterti. Il riflesso sei tu. Sei tu che sparisci senza uno specchio, sei tu che parli soltanto quando io muovo le labbra ed esisti soltanto quando ti penso. Le tue parole sono le mie. La verità, che così a lungo hai cercato, è l’opposto esatto di ciò che tu credi, è speculare. Tu la vedi al contrario perché la vedi attraverso lo specchio, capisci finalmente? Ma se in tutti questi anni hai saputo stare al gioco, perché ora rinnegare ogni cosa? Perché proprio ora?
PERSONAGGIO – Non è possibile… No! Tu menti! Cerchi di ingannarmi. L’originale sono io, io soltanto! Sei tu il parto della mia mente, sei tu, non viceversa.
RIFLESSO – Sei stato un fedele compagno. Alle volte abbiamo bisogno di scorgere il nostro riflesso per scoprire d’esistere.
PERSONAGGIO – [Toccandosi il volto] Taci! Come puoi dimostrarlo? Non puoi dimostrarlo!
RIFLESSO – Mio vecchio amico, veramente non capisci? Sei tu nello specchio, non io. Ormai mi basta spegner la luce e sarai tu a scomparire. Mi dispiace, ma forse è giusto così.
PERSONAGGIO – [Avvicinando la mano al vetro] No! Non farlo, non spegnere, ti prego! Alla fine che importanza ha sapere chi di noi due è il riflesso? Ci siamo voluti bene come fratelli fin dal primo giorno, perché rovinar tutto? È vero, non so più chi è reale e chi no, ma non m’importa neanche più… Che tu sia il riflesso o l’originale, io ho bisogno di te, della tua voce così familiare, del tuo volto gemello, che è l’unico modo che ho per scorgere me stesso. Solo ora ho finalmente capito, solo ora! Io per esistere ho bisogno di un doppio. Ti prego, non mi abbandonare… Non l’ho mai visto Dio da vicino, ma magari anche lui non è capace di stare da solo.
RIFLESSO e PERSONAGGIO – [Insieme, spegnendo la luce] Addio.
BUIO
Lezioni di storia
Ho sempre creduto che la necessità di prender ripetizioni in storia sia sintomo di poco lodevole pigrizia, o peggio ancora di quella densa ottusità che contraddistingue molti ragazzetti d’oggi, il cui occhio lento e offuscato di rado promette una conversazione entusiasmante. Tuttavia, finita l’università mi resi presto conto che ad attendermi non c’era alcun futuro, e preso dallo sconforto stampai alcuni volantini con i quali mi offrivo di dar ripetizioni nella disciplina in cui mi ero appena laureato: storia, per l’appunto. Non nutrivo in realtà alcuna speranza nei confronti dell’intera questione, la quale era più che altro un modo per dimostrare a me stesso che mi stavo dando da fare e che non mi arrendevo facilmente alla vita. Così quando squillò il telefono e la voce sommessa d’un ginnasiale mi domandava se ero disposto a cominciare già l’indomani, dovetti fare uno sforzo per credere alle mie orecchie. Ci accordammo per le 9:00 della mattina successiva.
Quando un trillo educatamente breve del campanello annunciò l’arrivo del mio nuovo allievo, mi trovai di fronte un ragazzino per bene che non sembrava particolarmente segnato da quella malattia che gli esperti chiamano adolescenza, e che molti dei suoi coetanei avevano contratto. Fattolo accomodare, cominciai subito con la prima lezione, che avevo ideato la sera prima. Volli iniziare introducendo l’idea stessa di storia e la sua utilità, prima di riversare nel giovane quel fiume di guerre, imperatori, paci e battaglie che solitamente si insegnano a scuola. Gli spiegai l’importanza di comprendere e di ricordare il passato, che con ciclica puntualità torna a farci visita nel presente. Il ragazzo ascoltava con grande attenzione e tracciava schemi e annotazioni sul suo quaderno, facendo mostra di una diligenza di cui mi compiacqui segretamente. Finita la lezione mi dissi molto soddisfatto e lo invitai a tornare il giorno successivo alla stessa ora, avendo intenzione di iniziare con lo studio della Grecia di Pericle.
L’indomani lo stesso discreto scampanellio m’informo del suo arrivo, e io fui contento di far entrare quel giovanotto così gentile e volenteroso. Prima di cominciare con Pericle decisi di fargli qualche domanda sulla lezione del giorno precedente per scoprire quanto ne sapesse ricordare. Con mia grande sorpresa egli restò in silenzio, seguitando a fissarmi con la stessa espressione educata che non aveva mai abbandonato il suo volto: non ricordava nulla. Quando fu chiaro che nella sua memoria non v’era più neanche un rimasuglio delle mie parole, e che ogni cosa era stata sciacquata via con la cura di una lavandaia, mi prese un certo sconforto. Eppure non mi volli perdere d’animo e, rimandato Pericle al giorno successivo, ricominciai tutto daccapo e di nuovo gli spiegai l’importanza di comprendere e di non dimenticare il passato, e di come la storia si ripresenti ciclicamente nel presente. Egli non mi deluse, prestò grande attenzione e riempì il suo foglio di appunti. Ne fui sollevato e imputai quel primo fallimento all’emozione e alla novità della materia.
Alle nove in punto del giorno successivo il campanello suonò brevemente, come non volesse dar fastidio a nessuno. Feci accomodare il ragazzo, sempre sorridente, e cominciai con le domande. Non senza una certa stizza scoprii che Pericle avrebbe dovuto aspettare ancora una volta. Non ricordava assolutamente niente, il quaderno era tornato intonso, e così la sua mente: candida come un fazzoletto appena lavato. Mi sforzai di non perdere la pazienza e ripetei per la terza volta la prima lezione. Prima di congedarlo gli raccomandai più volte di studiare per bene, e l’avvisai che l’avrei interrogato. Mi assicurò che non mi avrebbe deluso e, ringraziatomi, se ne andò.
Inutile dire che anche il giorno successivo egli non proferì una sola parola. La sua mente era di nuovo svuotata di ogni ricordo e il ragazzo non seppe far altro che fissare le piastrelle in silenzio. Mi infuriai e gli dissi chiaramente che non sarebbe più dovuto venire. Se non aveva la minima intenzione di studiare non vi era motivo alcuno perché sprecasse così il suo tempo e, non da ultimo, anche il mio. Ammisi di essermi ingannato sul suo conto, evidentemente faceva parte anch’egli di quegli studenti svogliati e immeritevoli per cui “andare a scuola” è una semplice espressione di moto a luogo. Egli si mostrò molto dispiaciuto, quasi non si aspettasse la mia reazione, ma non disse nulla e se ne andò afflitto. Mi scoprii molto sollevato dal non aver più il pensiero delle lezioni. Per quanto mi riguardava, Pericle poteva tornarsene in Grecia, e io decisi che non avrei mai più dato ripetizioni di storia in vita mia. Quella sera mi addormentai serafico, ignorando cosa sarebbe successo di lì a poco.
La mattina dopo, esattamente alle ore nove, stavo facendo colazione quando udii suonare alla porta. Credetti che il postino si fosse finalmente deciso a consegnarmi una lettera che aspettavo da tempo e andai ad aprire sovrappensiero. Mi trovai davanti lo stesso ginnasiale dei giorni precedenti, con lo stesso sorriso cordiale; stava sulla soglia aspettando che lo facessi entrare, come se nulla fosse successo. Confesso che quella tenacia mi colpì molto e, in preda a una certa confusione, lo feci accomodare. Il ragazzo non pareva minimamente turbato, come fosse lì per la prima volta. Si aspettava che gli ripetessi la lezione, cosa che feci, non so ancora se mosso a compassione o non sapendo cos’altro fare.
Da quel momento in poi non so più contare i giorni. Ogni volta si ripeteva la stessa surreale scena. Il ragazzino non ricordava assolutamente nulla. Quando persi di nuovo la pazienza e ricominciai a dirgli di non tornare, egli dimenticò anche quello. Ogni mattina suonava il campanello e sia che io lo cacciassi a male parole, sia che gli ripetessi la medesima odiosa lezione, potevo star certo che l’indomani saremmo tornati al punto di partenza. Presto la situazione divenne insostenibile, mi pareva di vivere perennemente lo stesso giorno e di non poter scampare all’inevitabile ripetersi del nostro appuntamento. Tentai ogni cosa per estirparlo dalla mia vita ma tutto fu vano. Egli non aveva memoria: ogni volta era la prima e, inevitabilmente, la stessa.
Spinto dalla disperazione, decisi di mettere fine a quella follia una volta per tutte. Dopo lunghe riflessioni, convenni che non potevo far altro che ucciderlo. Non senza difficoltà riuscii a procurarmi una fiala di cianuro, che tenni nascosta in un cassetto della credenza per qualche tempo, mentre raccoglievo il coraggio per quell’atto estremo. Del resto, arrivato a quel punto non avevo nessuna intenzione di tornare indietro. Così una mattina, prima di congedarlo dopo la solita lezione, gli offrii un bicchiere d’acqua che avevo nascostamente avvelenato. Mentre lo guardavo allontanarsi, al pensiero che di lì a poco sarebbe stramazzato per terra, temevo che il senso di colpa mi avrebbe torturato. Al contrario, quella notte tornai finalmente a dormire come un tempo. Non potevo credere di essermi definitivamente liberato di quell’individuo che pareva non avere memoria, e soprattutto di poter ricominciare a vivere la mia vita normalmente.
Sorseggiavo euforico il caffè mattutino e facevo piani per il mio futuro quando suonò il campanello. Restai pietrificato, mentre una sensazione di angoscia si impadroniva di me. Aprii lentamente la porta e con indicibile orrore scoprii quello che già sospettavo: era lui. Con lo stesso sorriso da bravo ragazzo attendeva che lo facessi entrare per ricominciare quell’incubo da capo. Com’era mai possibile? Come aveva potuto resistere al veleno? Raddoppiai, triplicai le dosi ma ogni sforzo si dimostrò vano. Credetti d’impazzire. Egli non ricordava nulla, non ricordava di essere stato avvelenato, probabilmente non ricordava neanche di essere morto e tornava ogni giorno a sentire la stessa lezione di storia, condannandomi a quell’eterno presente che saltava indietro con la regolarità di un vecchio giradischi.
Quando fu chiaro che non vi era alcuna speranza di fuggire da quella maledizione e che, intrappolato senza via di scampo, ero il più miserabile dei prigionieri, l’idea di togliermi la vita giunse come una liberazione. Non avrebbe forse Prometeo salutato la morte come suprema salvatrice, quando l’aquila gli divorava giorno dopo giorno il fegato? La condanna più terribile non è morire, è piuttosto essere costretti a vivere senza poterlo veramente fare. La mia ultima sera fu un poco mesta, ma ero assolutamente determinato a metter fine a quell’incubo che come un serpente mi aveva stretto nelle sue spire. Il sapore di mandorle amare del cianuro mi fece compagnia durante gli ultimi istanti, e quando vidi la stanza farsi sempre più buia e scomparire per sempre non potei fare a meno di sorridere.
Fui svegliato all’improvviso dal trillo del campanello che, come sempre, fu breve e molto discreto.
Estratti n. 2
Care Lettrici, cari Lettori,
stringete tra le mani il secondo numero di Estratti, l’unico settimanale a cadenza mensile che vi porta la cultura e la letteratura direttamente all’uscio di casa; poi voi, se volete, gli aprite.
Le migliori pubblicazioni del panorama editoriale contemporaneo sono state scelte dai nostri esperti appositamente per voi. Gli estratti vi permetteranno di assaporare diverse opere, senza approfondirne nessuna e, cosa più importante, mantenendo l’attività cerebrale al minimo necessario per le funzioni biologiche dell’organismo.
Buona lettura!
Manuale d’odio per il rubinetto miscelatore della doccia. Opera in 7 volumi. Editore Brucapenna, Genova, 1998.
Dall’introduzione al volume primo.
Tra le varie invenzioni umane che hanno inorgoglito la mamma dell’ideatore ed estenuato brutalmente il resto dell’umanità, io credo s’abbia da consegnare il primato al rubinetto miscelatore. Senza paura d’esser esagerato, la considero l’invenzione più inutile e snervante della storia dell’occidente moderno. La levetta cromata che nelle nostre case e nelle nostre docce ha sostituito i tradizionali rubinetti separati, promette un flusso d’acqua dalla temperatura costante e ben regolabile. Del resto, fu proprio Archimede a dire “datemi una leva e vi solleverò il mondo”. Ed ecco che, pronti per la toeletta mattutina, la impugnamo come moderni tranvieri del duemila, preparati ad un viaggio nelle tiepide e vaporose gioie della doccia calda. L’acqua esce a fiotti eleganti e continui, ma scotta, scotta sempre di più. Si alza una coltre di fumo, par d’essere nella caldaia d’un treno. Allora, con colpetti ben assestati del palmo, colpiamo la rigida punta del miscelatore, per spostarla un poco più a destra, verso il blu, verso il tepore promesso. Dapprima par non prestare attenzione al nostro comando, ci ignora, ma tutto d’un tratto, senza soluzione di continuità alcuna, l’acqua diviene ghiacciata. Siamo passati dal vulcano Fujiyama al fiordo di Geirenger in un battito di cuore, e Satana rimbomba più volte nelle nostre sale da bagno, invocato. Tentiamo ora la strada inversa, con colpetti verso sinistra, verso il rosso, verso il gaudio, ma la storia si ripete al contrario. E così procede per molto la nostra doccia; prometteva d’essere il più morbido dei lussi moderni, e invece è il più gelido degli altiforni, il più bollente dei ghiacci. La tragedia di Tantalo si ripresenta nella modernità, l’acqua tiepida ci diviene nemica, ci sfugge eternamente. Ma questa è una tragedia senza finale, e la condanna è tornare ogni giorno nella doccia oscillante, come falene stanche che si ostinano a sfarfallare intorno ad una lampada. La stessa lampada che le acceca lentamente, e infine le uccide.
Il manuale che stringete fra le mani si prefigge dunque di rispondere ad una domanda fondamentale: come si odia correttamente un rubinetto miscelatore?
Grazie a chiare ed esaustive spiegazioni, illustrazioni a pagina intera, istruzioni intuitive e mega-diorami, sarà possibile apprendere l’antica arte dell’odio idraulico. L’opera è adatta sia a colui che si avvicina per la prima volta alla materia, sia al professionista che vuole approfondire la sua competenza. Troveranno spunti creativi sia il novellino che volesse prendersi una piccola rivincita sull’inanimato, sia il veterano che, non essendo riuscito a far la doccia, è disposto a demolire l’intero stabile dove vive, con l’ausilio di macchine scavatrici industriali e cariche di napalm. O magari, perché no, nuclearizzando il quartiere.
Rimanenze di magazzino. Il catalogo dei prodotti invenduti. Dicembre 2017.
Lavastoviglie a batteria. Ultimo ritrovato in fatto di elettrodomestici salva-spazio, la lavastoviglie misura 20 x 20 cm e funziona con 8 batterie del tipo AA. Unico punto debole è l’autonomia energetica: lava un cucchiaino da caffè e le batterie si scaricano completamente. Il cucchiaino a volte non viene neanche pulito.
Mobile per bambini. Non lasciatevi ingannare dal nome, non si tratta di un mobile per la cameretta dei vostri figli. Dovete passare la cera sulla moquette e non volete i pargoletti tra i piedi? Il capo di vostro marito è invitato a cena e la vostra prole vi imbarazza, essendo solita imprecare come un operatore portuale? State partendo per le ferie e volete risparmiare sulla dog-sitter che di solito vi teneva i bambini? Niente di più facile! Da oggi potrete chiudere i vostri figlioli sottochiave e dimenticarvi per sempre le parole stress e patria potestà! Varie finiture e colorazioni. (N.B. Dal 2012 i rifiuti ingombranti vengono ritirati solamente su prenotazione telefonica.)
Bottiglia di sughero col tappo di vetro. Basta brutte figure: i vostri ospiti più esigenti non potranno più lamentarsi del vino e dire: -Sa di tappo.
– Eh no, cara, se mai sa di bottiglia. Ora tornatene a casa tua, brutta zitellona a gettone, e non ti far più rivedere.
Succo di palude, con pezzi di torba interi. Tua figlia si lamenta poiché tutti i suoi compagni di scuola hanno una merenda più trendy di lei? Prova i nuovi succhi di palude, una soluzione pratica e nutriente per giovani campioni. Valori nutrizionali medi: carboidrati 33%, proteine 27%, torba 23%, malaria 17%. In comode confezioni da 4 o 8 pezzi, con cannuccia.
Test di gravidanza cartaceo. Ti senti come se qualcosa di strano ti sta crescendo nella pancia? SÌ/NO
Manuale di autodifesa verbale. Collana “12 volt”. Ed. Il Merlo. Torino 2013.
Stanchi di imbattervi in critiche e obiezioni che vi imbarazzano e vi feriscono? Vi mancano le parole per ribattere durante una riunione di lavoro? Vi sembra di non riuscire ad intavolare un discorso convincente e nessuno vi ascolta? Grazie a questa nuova guida pratica apprenderete un metodo aggiornato, innovativo e infallibile in grado sconfiggere la più sofisticata delle dialettiche e mettere a tacere qualsiasi interlocutore. Riprendetevi la vostra vita, ora!
Occorrente:
-Una sedia resistente
-Una stanza vuota, meglio se uno scantinato in periferia
-La batteria di un furgone (12volt) con relativi morsetti
Alcune delle recensioni che abbiamo ricevuto:
“Il libro è arrivato in ritardo e il pacco era stato aperto. Non farò più acquisti su questo sito. 1/5” Franco, 34 anni.
“Un libro da leggere e da rileggere. Elettrizzante!” Filippa, 23 anni.
“Anche io pensavo che ne ferisse più la parola, prima di provare con la batteria del mio Ducato. Grazie a questo corso la mia vita è cambiata.” Giorgio, 49 anni.
Altri titoli della collana “12 volt”:
– Come vivere una vita felice con il vostro partner, senza mai perdere la carica
– Come accordarsi sulla data della pizzata con gli ex compagni del liceo
– Come insegnare il computer agli anziani senza perdere la pazienza dopo 10 minuti e spaccare tutto
Pivella 2000. Mensile di informazione femminista. N. 124, giugno 2017.
Dalla rubrica “Scherzi da donna”, pag. 2.
Una sera che tuo marito torna a casa particolarmente stanco dopo il lavoro, tienigli il muso senza motivo. Appena si siede a tavola per cenare, sbattigli nel piatto un salmone ancora vivo. Se osa lamentarsi chiama il presidente di Slow-Food e denuncialo piangendo. Poi, mentre si fa la doccia, indossa una maschera africana e brucia un treno di pneumatici invernali in salotto. Si metterà a urlare come un pazzo quando vedrà la casa che avete comprato con tanti sacrifici completamente otturata dalla gomma liquefatta. Tu, prontamente: “Chi passa il giorno a lavare, io o tu? Brutto mascalzone maschilista, non alzi un dito e pretendi che io faccia la brava mogliettina? No caro, mi sa che non hai proprio capito, non siamo più negli anni Trenta.” Se prova a salvare dall’incendio i tappeti persiani della camera da letto, aiutati con un’idrovora industriale e irrigali di olio di vinacciolo e diavolina. Vediamo se lascia ancora la tavoletta su, adesso! Mentre si dispera strappandosi i capelli, fai un bonifico con tutti i vostri risparmi ad una onlus venezuelana che fa le statuine con la pasta di sale. Volendo, con un machete puoi squartare la portinaia.
Quando però tuo marito si arrabbia sul serio, è ora di smettere. Che fin che si scherza va bene essere per la parità dei diritti, però poi bisogna anche saper tornar seri. Quindi adesso, da brava, pulisci tutto per benino e scusati tanto.
Femministe di tutto il mondo, unitevi e marciate come un sol uomo!
Grande antologia dei poeti celiaci del Novecento europeo. Arnolfo Umetto Editore, San Gimignano 1994.
Da pag. 228:
Si sta come
In primavera
Gli intolleranti
Al polline
Indovinelli moldavi impossibili. Mettetevi alla prova con l’unica raccolta ufficiale e completa dei più difficili indovinelli dalla Moldavia. Ed. Battipagine, Trieste 2011.
-Indovina, indovinello: cosa fa un dentino quando cade?
-Non saprei proprio, dimmelo tu.
-Si infila in un tombino, blocca un tubo e fa traboccare la fognatura. È un disastro. Il sindaco si nasconde in una grotta carsica, sua moglie per la vergogna smette di giocare a shanghai con la porta del bagno, mentre il figlioletto legge ad alta voce le scritte sul dentifricio. Circa settecento fenicotteri vengono tritati per fare la marmellata, ma si ribellano, scappano, chiudono la partita IVA. In un campo vicino c’è un pompiere seduto su un secchio. Da un pozzo riemerge un antico spirito della montagna e terrorizza la popolazione con la sua voce tonante: “Se nessuno mi insegna la ricetta per far le banane di cartapesta contamino le falde acquifere!” Una signora che era lì per caso: “O con le pantofolacce di cuoio, o fuori da casa mia, farabutto!” In quell’istante preciso tutti i girasoli del mondo si scocciano, e iniziano a guardare un po’ dove gli pare a loro.
-Ma pensa, stavo per dirlo…
La ragazza del cimitero
Quando scoprii che quello che avevo creduto essere il giardino di una villa era in realtà il parco del cimitero cittadino, presi l’abitudine di trascorrervi i miei pomeriggi domenicali. Non so spiegare in che modo quel luogo esercitasse su di me tale attrattiva, eppure non sarei del tutto sincero se dicessi che erano soltanto i grandi alberi frondosi e le aiuole ben curate a richiamarmi ogni domenica. Il parco mostrava un’eleganza garbata e armoniosa, ma l’atmosfera che segretamente ammiravo scaturiva dal fatto che, dopotutto, quello era un cimitero. Non v’era nulla di triste, di lugubre, o morboso nella mia nuova abitudine; del resto cercavo soltanto quella placida tranquillità che raramente avevo trovato altrove.
Nelle prime ore dopo pranzo, quando i rintocchi della piccola chiesa al centro del parco erano ancora troppo pochi per risultar fastidiosi, si poteva passeggiare indisturbati per ore senza incontrare nessuno. Con un libro sotto al braccio percorrevo allora la poca strada che separava la mia abitazione dal cancello del parco e imboccavo il viale principale. I sentieri di ghiaia si diramavano senza un ordine particolare, tanto che chi li avesse percorsi per la prima volta, distratto dalla profonda calma di quel luogo, avrebbe di certo finito col perdere il senso dell’orientamento. Dopo pochi minuti ero già assorto nei miei pensieri, e in quello stato invidiabile vagavo senza meta per circa un’ora, finché le ginocchia non cominciavano a dolermi e cercavo dunque una panchina. Estratto il mio libro leggevo a lungo, fin quando non sentivo la campana mandare sei colpi distanti e il sole cominciava a sparire dietro alle montagne. Sulla strada di ritorno salutavo il custode che chiudeva la chiesa e mi affrettavo verso casa, rincuorato dal sapere che la domenica seguente sarei tornato a camminare tra quegli alberi.
Spesso durante le mie passeggiate, senza accorgermene, cominciavo a leggere le vecchie lapidi di pietra abbracciate dall’edera. Mi pareva allora di distinguere chiaramente l’eco di un mondo antico e scomparso riverberare dalle lettere dorate e, quasi per gioco, ripetevo nella mente quei nomi appartenuti a chissà chi e mi immaginavo quelle vite lontane.
Alle volte mi imbattevo in qualche anziano visitatore del cimitero e, dato che ero l’unico giovane che frequentasse quel luogo, mi venivano rivolti dei gentili sorrisi di compassione, come se avessi celato una grande sofferenza, quando invece l’essere lì era per me causa di grande piacere. Osservavo con curiosità quei visi che il tempo aveva segnato, e presto mi accorsi che non vi si poteva scorgere alcuna traccia di dolore. C’era invece una nascosta dolcezza nell’anziana signora che, con due fedi al dito, cambiava l’acqua dei crisantemi e, senza avermi scorto, sussurrava qualche parola. O nel vecchio chino e silenzioso che strappava lentamente le erbacce intorno alla tomba della moglie, come preparasse un secondo letto di nozze. Il dolore appartiene più ai giovani che ai vecchi e, in fondo, così anche la morte.
Una domenica, mentre avevo da poco iniziato la lettura di un nuovo libro, ad un tratto sentii una voce femminile domandare: «Chiedo scusa, temo di aver smarrito la strada, sarebbe così gentile da indicarmi come raggiunger la chiesa?»
Dal momento che non vi era altri all’infuori di me, alzai la testa per rispondere. Mi figuravo una di quelle anziane signore che alle volte m’era capitato di accompagnare, e invece scorsi una fanciulla di circa vent’anni con un lungo vestito bianco e i capelli raccolti. Sorrideva in silenzio, aspettando la mia risposta. Cercando di illustrarle la strada mi accorsi però che, benché avessi imparato ad orientarmi in quel posto percorrendolo in lungo e in largo, ora che dovevo ripetere quei riferimenti che avevo memorizzato sovrappensiero, non sapevo venirne a capo. Dopo qualche minuto di inutili tentativi, mi offrii di accompagnarla io stesso, ed ella si dimostrò ben contenta.
Ci incamminammo in silenzio lungo un sentiero costeggiato da alcune querce, e presto la punta del campanile comparve in lontananza, svettando sopra le cime degli alberi. Mi domandai con curiosità cosa spingesse la ragazza a frequentare quel luogo, ma non mi permisi la sfrontatezza di chiedere. Pure non pareva affatto addolorata, come fosse lì per pianger qualcuno, né portava con sé dei fiori che avrebbe potuto lasciar su una tomba. Avanzava con passo tranquillo e aggraziato, e la si sarebbe detta la creatura più spensierata del mondo.
Giunti a pochi passi dall’entrata della chiesa, una costruzione dalle fattezze ben proporzionate seppur piuttosto semplici, si voltò per ringraziarmi calorosamente e mi sorrise. Rimasi a guardarla scomparire oltre l’oscurità della porta e poi me ne tornai sui miei passi. Quell’incontro mi aveva inspiegabilmente turbato e, ripreso in mano il mio libro, mi scoprii rileggerne più volte le medesime frasi.
La domenica successiva sedevo sulla stessa panchina, quando sobbalzai nel sentire la voce della ragazza. Si era persa nuovamente e mi supplicava di accompagnarla ancora verso la chiesa, scusandosi vivacemente per l’incomodo. In realtà, benché mi sforzassi di non darlo troppo a vedere, mi rallegravo grandemente di averla incontrata di nuovo. Questa volta scelsi un percorso un poco più lungo e la fanciulla si dimostrò un’amabile conversatrice. Mentre l’ascoltavo parlare mi accorsi per la prima volta di quanto fosse bella e aggraziata; di una bellezza e di una grazia, per così dire, antiche. Indossava lo stesso vestito bianco e portava i capelli legati con un nastrino azzurro, facendo mostra di quell’eleganza spontanea che trova origine nella semplicità, e che poche persone possono vantare. È strano come alle volte la bellezza si lasci cercare, piuttosto che palesarsi fin da subito, e quando infine la troviamo, questa si dimostra ben più luminosa della semplice appariscenza. Quando arrivammo di fronte alla porta della chiesa, la ragazza indugiò qualche istante ancora, e infine scomparve oltre la soglia, lasciandomi più pensieroso e scosso della prima volta.
Senza che ci fossimo in alcun modo accordati, ci incontrammo anche la settimana seguente. Benché dubiti che avesse ormai più bisogno della mia guida, mi offrii ugualmente di accompagnarla ed ella accettò volentieri. Per la prima volta le dissi il mio nome, ed ella mi rispose di chiamarsi Olimpia Delledera. Quel nome mi suonò familiare, come l’avessi già sentito pronunciare molte volte, ma non seppi spiegarmi il motivo. Camminammo insieme lungamente, fino a che si volle sedere all’ombra di una grossa quercia per riprendere fiato. La conversazione proseguiva piacevolmente e senza che gli occasionali silenzi ne intralciassero lo scorrere. Ho sempre pensato che soltanto gli animi più sereni possano permettersi di restare in silenzio, senza che questo divenga fonte d’imbarazzo. Olimpia sembrava godere sinceramente della mia compagnia e, raccogliendo dei fiori tra l’erba, rideva ai miei scherzi. Mi convinsi allora di aver trovato in lei uno spirito affine al mio, e ogni istante che trascorrevo in sua presenza finiva coll’imprimersi tanto bene nella memoria che la notte potevo risentire il suono della sua voce e scorgere di nuovo il suo vestito bianco.
Le domeniche successive ci incontrammo presso la stessa panchina e trascorremmo passeggiando insieme interi pomeriggi. Sebbene non nasconda che provassi una certa curiosità, non le chiesi mai per quale motivo si recasse nella chiesa di quel cimitero; non volevo sembrare inopportuno, e non avevo nessuna intenzione di rompere quell’incanto. Ogni sera la accompagnavo fino alla soglia della cappella, e l’ultimo sorriso che mi lanciava prima di voltarsi bastava a darmi la forza di aspettare una settimana. Quel cimitero era diventato per me il luogo più dolce avessi mai frequentato; ne imparai a memoria ogni singolo cantone e spesso mi ritrovai a percorrerne i vialetti di ghiaia anche in sogno.
Una sera, poco prima che il sole tramontasse, camminavamo silenziosi, entrambi immersi da qualche tempo nei rispettivi pensieri, quando sentii la sua mano fredda e leggera afferrare la mia. Mi riscossi subito cercando qualcosa di adatto da dire, ma non seppi far altro che restar muto, e così fece lei. Continuammo a passeggiare mano nella mano fino alla chiesa, e nessuno dei due proferì parola alcuna. Non v’era molto che potessimo aggiungere a quel gesto, nato con tanta naturalezza e che con tanto garbo svelava i nostri cuori. Non posso dire d’esser stato folgorato dall’emozione; ero d’una serenità pacifica piuttosto e, per la prima volta, felice.
Quando fu il momento di separarci, si voltò e mi sorrise più lungamente del solito. Mi parve allora di scorgere una lacrima bagnarle gli occhi, ma ormai era calata la notte e immaginai d’essermi ingannato. Quando la vidi sparire nelle tenebre, ebbi per un istante l’irresistibile tentazione di seguirla dentro alla chiesa, ma qualcosa mi trattenne e restai sul sagrato immerso nell’oscurità.
La domenica seguente, prima di varcare il cancello del cimitero, mi fermai ad acquistare dei fiori. Attraversando il viale principale mi imbattei in un’anziana coppia intenta a rimuovere il muschio dal marmo di una lapide. Quando mi videro con i fiori in mano, interruppero per un attimo il loro lavoro e mi rivolsero entrambi un sorriso compassionevole. Affrettai il passo e raggiunsi la panchina per primo. Mi sedetti, chiedendomi se nel porger quel mazzo avessi dovuto dire qualcosa di solenne. Tutto intento nell’inventare una frase che non suonasse goffa o ridicola, in principio non mi accorsi del passare del tempo. Soltanto la campana delle quattro mi riscosse, e dal momento che Olimpia non si era ancora mostrata, iniziai a preoccuparmi. Pensai che forse quella domenica avrebbe tardato, eppure dal primo incontro non aveva mai mancato il tacito appuntamento. Dopo un’ora non era ancora arrivata, e iniziai a dubitare che sarebbe venuta. Attesi fino alle sei quando, preso dallo sconforto, abbandonai la panchina. Pensai allora di passare davanti alla chiesa, auspicando di trovarla in quel luogo. Mi incamminai velocemente e presto fui sul sagrato, ma mi accorsi subito che la porta era già stata serrata dal guardiano e che dunque non potevo più sperare di incontrarla quel giorno. Stavo per andarmene quando notai un nastrino azzurro legato alla grossa maniglia d’ottone, lo stesso che Olimpia portava nei capelli. Lo slegai avendo cura di non strapparlo e lo misi in tasca. Presi la via di casa con passo svelto, mentre mille pensieri confusi mi affollavano la mente. Ebbi la strana sensazione di aver intuito una verità, senza riuscire ancora ad afferrarla del tutto.
Ero quasi giunto al cancello quando un brivido m’attraversò la schiena. Per un istante m’era parso di scorgere con la coda dell’occhio qualcosa di familiare, sebbene non avessi idea di cosa si trattasse. Volsi lo sguardo in quella direzione e, alla luce tremolante dei lampioni, sulla lapide più vicina lessi: Olimpia Delledera, 1856-1880.
Rimasi immobile in quel luogo per alcuni minuti. Si potrebbe pensare che mi avessero preso grande dolore e afflizione, ma non fu così. Mi accorsi semplicemente d’aver scoperto ciò che segretamente sapevo fin dal primo momento, e che avevo deciso di tener nascosto a me stesso. Con una malinconia più dolce che mesta, avvolsi il mazzo di fiori nel nastrino azzurro e lo deposi ai piedi della tomba resa scura dal tempo. La notte era ormai calata e, alla luce della luna che splendeva sopra le cime degli alberi, mi incamminai verso casa.
Estratti n. 1
Quante volte avete pronunciato frasi come: “Vorrei leggere un libro, ma proprio non ho tempo”; “Se solo avessi un momento libero, mi dedicherei allo studio”; “Mi piacerebbe sapere il giapponese, ma adesso non ho voglia”; “Vorrei essere più colto, ma neanche tanto”?
D’ora in poi non avrete più scuse: niente più “ma” nella vostra vita! Con il settimanale a cadenza mensile Estratti, la grande letteratura e la cultura verranno a bussarvi direttamente alla porta di casa. Poi voi, se volete, gli aprite.
Estratti propone, ogni mese, un compendio delle migliori offerte del mercato editoriale. Dalla narrativa alla saggistica, dall’opuscolo della Pro Loco di Agrate Conturbia, alla corrispondenza di un agrimensore nepalese del XV secolo.
Potrete sfoggiare ai colleghi il vostro formidabile nozionismo sugli argomenti più vari, imparare una lingua in una settimana, apprezzare la grande letteratura in pillole, sentirvi intellettualmente superiori al vostro vicino metalmeccanico, e anche guardare i giovani scuotendo la testa.
Erasmus sul balcone, e altri 1000 racconti di viaggio veramente poco avvincenti. Ed. Battipagine, Trieste 2015.
Apre la raccolta la storia di Francesco Abatini, studente palermitano di scienze dell’educazione. Dopo lunghe discussioni avute con la madre, la quale piuttosto che lasciarlo partire l’avrebbe rinchiuso volentieri in cantina, ecco che il padre ha un’idea geniale. Il compromesso trova subito il favore di tutti: Francesco fa le valigie, saluta la famiglia (che lacrimoni la mamma!), ed esce sul balcone. All’inizio non è facile: la nostalgia di casa si fa sentire e molte cose che prima erano scontate, ora non lo sono più. Ma dopo qualche tempo, superate le prime difficoltà con la lingua, Francesco si è ambientato e non vorrebbe più tornare. Il semestre passa in un soffio ed è già il momento di rifar le valigie. A casa lo accolgono come un eroe, tra abbracci e regali. Il padre, per scherzare, gli dice: – Ormai ti sei fatto un uomo… E l’anno prossimo dove andrai? In giardino? – Ma la moglie gli tira un’occhiataccia.
Giapponese in sette giorni. Collana “Senza fatica”. Ed. Il Merlo. Torino 2014
Il corso vi guiderà attraverso la scoperta di questa meravigliosa lingua e della millenaria cultura giapponese. Grazie a testi di difficoltà crescente e a esercizi mirati, dedicando allo studio soli 11 minuti al giorno, raggiungerete velocemente una competenza linguistica pari al livello C1 (quadro comune europeo di riferimento). Non è neanche necessario che vi concentriate durante gli ascolti: una volta fatta partire la cassetta, sentitevi liberi di fare i mestieri di casa, navigare su internet o raggiungere i vostri amici all’ippodromo. Dopo soli sette giorni, terminato il corso, sarete finalmente in grado di apprezzare la grande letteratura nipponica e guardare i magnifici film di Kurosawa in lingua originale senza sottotitoli.
PREREQUISITI: una buona conoscenza della lingua giapponese
Estratti della prima e della seconda lezione:
LEZIONE 1
Si traduca, senza commettere errori, dall’italiano al giapponese.
– Buongiorno signor Ennosuke, come sta sua figlia Harukichi?
– [Dopo alcuni minuti di inchino] Buongiorno signor Chikafusa; fino a ieri sera mia figlia Harukichi stava bene. Grazie infinite per aver domandato, signor Chikafusa.
– Fa piacere. E oggi come sta sua figlia Harukichi, signor Ennosuke?
– Questa mattina il mostro della risaia l’ha divorata.
– Questo turba il mio cuore, signor Ennosuke; stavo infatti per sposare vostra figlia Harukichi. Ora per salvare il mio onore non mi resta che darmi la morte. [Non trovando una catana, afferra un fagiolino e tenta ripetutamente di infilzarsi la pancia].
– Buona giornata signor Chikafusa.
– Buona giornata signor Ennosuke.
LEZIONE 2
Si traduca dal giapponese all’italiano la quarta novella del Decameron.
Chichibioはその後、クレーンコンラッドと彼のゲストを提供しています。すぐに彼は行方不明の足を見て、貴族は、クレーンが一つだけの脚を持っていると応答する料理人、への説明を要求します。 Chichibio、挑戦彼らはこの声明の正確さをチェックするために湖を見に行くと次の日の嘘によってイライラ、高貴な。かつてそこに、二人の男は、これらの鳥がスリープ状態に使用されている位置で一本の足、上のいくつかのクレーンを見ることができます。コンラッドはその後、叫んで、「ああ、ああ、」第二の脚の引き出し、離れて怖がって飛ぶ鳥に実行されます。
Workshop: “Come gestire emozionalmente i pezzi interi nelle marmellate di frutta”
Il costo è di 1800 euro per un fine settimana, bevande escluse. Al termine del corso, ogni partecipante riceverà un attestato di partecipazione.
Vi capita mai, la mattina, mentre state spalmando tranquilli la vostra fettina, di sentire una terribile pressione opporsi all’andare del coltello? Ecco che più v’ostinate, v’arrovellate, e forzate la mano, più questo si incaglia mostruosamente, si ribella, si contorce in un diavolio confuso: non spalma più, insomma. Ha incontrato un pezzo intero di fragola; sentite l’ira e la frustrazione di una vita intera farsi strada verso il super–io. I peggiori istinti bestiali si sono risvegliati. Che fare?
Proprio per fornire delle risposte a questo quesito, abbiamo organizzato il suddetto corso. Si va dal training autogeno all’eutanasia, ma per gradi.
Dare del lei ai maiali. Raccolta di poesie contadine. Arnolfo Umetto Editore, San Gimignano 1998.
Da pag. 116:
Verro gigante,
io leggo Verlaine
e tu grufoli, grufoli.
Non capisco bene
il francese,
se non smetti
di razzolare.
Ma razzola pure,
porco unto,
mentre leggo Verlaine.
Non sai che
tra poco
facciamo i salami.
Vita privata di un ascensorista, e altri 99 spunti per scrivere romanzi che venderanno meno di 25 copie. Ed. Battipagine, Trieste 2003.
L’opera si colloca a metà tra il manuale di scrittura creativa e l’antologia. Fornisce allo scrittore in erba cento esempi ragionati di spunti deboli, per fallire in partenza e non farsi illusioni.
Dà il titolo alla raccolta la storia di Fabrizio Bengala, ascensorista ufficiale per una nota azienda di maniglie del bagno. La sua vicenda emblematica viene presa in esame nel dettaglio. Nonostante egli non abbia mai avuto grandi soddisfazioni professionali (va detto, in proposito, che lo stabile dove lavora è di due piani, e spesso la gente sale in ascensore e dice: – Guardi, non stia… premo io), egli non ha mai osato lamentarsi. La trama si sviluppa intorno alle lunghe sedute dallo psicanalista, dove interminabili silenzi sono interrotti soltanto da un leggero tossire. Le memorie confuse di un’infanzia senza ricordi, trascorsa in una famiglia della media borghesia di Busto Arsizio, si intrecciano ai desideri dell’uomo che non è mai diventato adulto. La narrazione viene spesso interrotta dalle lunghe pagine del diario di Fabrizio, dove egli cerca di prender consapevolezza di sé, ma non ha chiaramente gli strumenti per farlo. Il testo non manca di descrizioni: descrizioni di lunghi pianti in un angolo della cucina, descrizioni di patate che si seccano lentamente, descrizioni di muri.
Nessuno si accorge della sua condizione, tanto egli s’ingegna di nasconderla anche a se stesso. L’unico sfogo che si concede, l’unica rivalsa sul mondo, è di staccare la corteccia dei platani. Non tutta; solo un pochino, fin dove arriva…
Alla fine si scopre che era tutto un sogno.
Manuale di pedagogia ornamentale vol. 3
ANNUNCIO AI LETTORI
I lettori del Manuale potranno beneficiare di uno sconto del 5% per l’iscrizione dei loro figli alla scuola Stornamer. Fondata da Anton Stornamer*, la scuola applica scrupolosamente i principi educativi della Pedagogia Ornamentale, nel tentativo di plasmare i fanciulli fin dalla primissima età, per poi seguirne lo sviluppo fino ai 18 anni. Esistono, vero, altre realtà simili (ad esempio la scuola Steiner), eppure tutte queste hanno mostrato negli anni la loro inefficacia e la loro incapacità di produrre risultati tangibili, soprattutto se si considera il costo tutt’altro che democratico.
Alla scuola Stornamer grande importanza viene data al contatto del bambino con la natura. Non ci si limiterà infatti a brevi passeggiate nei boschi e giochi all’aperto: i bambini verranno invece abbandonati a turno sul ghiacciaio Presena. Avranno a disposizione tre pacchetti di cracker ai cereali, un paio di forbici di plastica per difendersi dai lupi e una cartina della Bolivia. Dopo 28 giorni un elicottero passa a riprenderli. In questo modo imparano molto di più che stando chini otto ore sul banco, e anche la schiena ne giova grandemente. Imparano cos’è un ghiacciaio, imparano le abitudini dei predatori notturni, imparano che la natura non sempre sa perdonare. E soprattutto imparano dov’è la Bolivia.
La scuola Stornamer abitua i bambini a relazionarsi con i loro coetanei fin dall’età prescolare. Le classi dell’asilo non sono dunque divise per colori (classe verde, classe blu…), né per età (piccoli, mezzani, grandi…), bensì la divisione in classi è di tipo feudale. Re – feudatario – vassalli – contadini – schiavi – animali da traino. Le assegnazioni sono del tutto casuali, dunque nessuno le taccerà di scorrettezza politica. È interessante osservare come le dinamiche sociali all’interno della scuola si sviluppino in maniera, alle volte, imprevista. Capita che, durante l’ora della nanna, un feudatario congiuri contro il reggente e tenti di avvelenarlo con del bromuro di sodio. I contadini e gli schiavi ne approfittano per imbracciare i forconi e chiedere a gran voce più diritti; anche gli animali da traino sono in visibilio. Ma la congiura è presto sventata, seguono condanne sommarie e durissime repressioni. L’attenzione è volta altrove: fervono i preparativi per le crociate. Le maestre stanno a guardare e non intervengono. La loro è una chiara scelta educativa: i bambini, un domani, non faticheranno a trovare il loro posto nella società.
L’alimentazione è tenuta in gran conto, alla scuola Stornamer. I bambini verranno fin da subito abituati a mangiare in autonomia, il che è un bell’insegnamento in questa società che tende, per così dire, a imboccarli ogni volta. Spesso dovranno anche procurarsi il cibo da sé: radici, bacche, insetti, piccoli animali del sottobosco; tutto biologico certificato e senza sofisticazione alcuna, non han da temere i genitori più attenti. Il cannibalismo è ammesso, ma solo per cena.
*(Anton Stornamer fu antroposofo, matematico dilettante, telegrafista approssimativo, grande bevitore; e il passato remoto è del tutto fuori luogo poiché, salvo ultimi sviluppi, egli è ancora in vita.)
CAPITOLO 9
Ci sono domande che, come genitore, uno non vorrebbe mai sentirsi fare. In parte perché sono domande difficili e necessitano di una risposta all’altezza, che mostri al fanciullo la retta via senza traumatizzarlo; in parte perché state comprando su internet delle tende per il frigorifero, e non è proprio il momento. Ecco le più comuni:
– Mamma, perché gli uomini fanno la guerra?
– Cosa vuol dire “può contenere tracce di soia e frutta a guscio”?
– Posso fare l’Erasmus nella Fossa delle Marianne?
– Hai mai mangiato un australopiteco?
– Ma i celiaci sognano focacce elettriche?
– Come nascono i bambini?
Se le prime possono essere semplicemente ignorate, voltando la testa dall’altra parte o alzando il volume dello stereo, l’ultima merita di essere affrontata con calma. Prendete vostro figlio sulle ginocchia, e spiegategli come funziona il grande miracolo della vita.
– Caro Antonio… anzi, caro Nino. Posso chiamarti Nino? Sì, sei mio figlio e decido io, ti pare? Caro Nino, immagina una bella apina gialla e nera che vola nel prato. È primavera e molti fiori sono sbocciati, punteggiando l’erba di mille colori. L’apina è giovane e piena di energie, e si posa su tutti i fiori. Ogni giorno un fiore diverso: oggi uno blu, domani uno rosso, e così via. Insomma, se la spassa alla grande. Il padre un giorno la prende da parte e le dice: “Oh, va bè che sei un’apina, però datti una regolata!” Ma niente da fare, lei continua imperterrita e non pensa al futuro.
Passano gli anni e l’apina non è più tanto giovane, benché si vesta ancora come un’adolescente. Si decide infine a mettere la testa a posto, ma ha ormai una certa età, e la sua fama non è delle migliori. Quando i fiori la vedono avvicinarsi, con i leggings e il trucco eccessivo, si scostano. Lei è triste è rimpiange il passato: vorrebbe un bambino. Un bell’apino da coccolare, insomma. Ma ora io ti chiedo: secondo te vuole veramente una prole? Il suo istinto materno può dirsi genuino? Oppure i figli sarebbero soltanto il mezzo per compensare la frustrazione di una vita vuota e disgraziata?
Comunque gli anni non si fermano ad aspettarla e corrono veloci. L’apina diventa sempre più triste, ma di una tristezza che non ispira alcuna compassione, tanto è l’aceto con cui la condisce. I fiori sono ormai un ricordo lontano, e ora gli apini le danno grandemente sui nervi. Non perde occasione per sgridarli quando giocano a pallone in cortile, o vanno con la bicicletta sui marciapiedi. “Per fortuna che non mi sono sposata!” dice alle amiche, mentre bevono il tè con il miele e parlano male di una giovane coppia, “Meglio soli che male accompagnati.” Eppure si è comprata un cane, e la notte si rigira nel letto. –
Ora tu, caro Nino, mi dirai: – Ma cosa c’entra tutto questo con la mia domanda?
– Niente, è vero. Ma ora va’ a giocare in cortile, che devo comprare le tende per il frigorifero. –
CAPITOLO 10
Alcune notti fa sento squillare il telefono di casa. Non avendo figli, mi giro dall’altra parte e cerco di riaddormentarmi, ma quello continua finché non mi alzo e rispondo. È una mamma di Sondrio in lacrime che chiede consiglio. Mi immaginavo.
– Sono disperata dottore, non so più cosa fare. Mio figlio sta attraversando un brutto momento.
– Guardi, intanto non sono dottore; quest’anno prendo il diploma di ragioneria, ma solo se recupero matematica. Comunque sia, perché mi sta chiamando a quest’ora? Non poteva aspettare domani?
– Ha ragione dottore, ma mio marito lavora in una miniera di asbesto sull’Adamello. Non vedendo mai la luce del sole, il suo ciclo circadiano è completamente sballato, capisce? Ho appena finito di preparargli il cenone di Natale, e fin che mi cuoce il tacchino l’ho chiamata.
– Incredibile, non pensavo che si sfasassero anche i mesi: siamo ad aprile… Comunque, mi dica signora, qual è il problema con suo figlio?
– Paolo, così si chiama, ha 14 anni ed è appena entrato nell’adolescenza. Immagino che questo possa essere un periodo di grande confusione, soprattutto per quanto riguarda l’identità. Un ragazzo della sua età inizia a scoprire il mondo, a scoprire se stesso, e il proprio orientamento. Non è un’epoca facile per i giovani; sono confusi e questa società fa di tutto per confonderli maggiormente. Capisce cosa intendo?
– Senta, tutte queste fesserie le lasci dire a me, per favore. Se va dal medico, non ci va con la diagnosi già pronta, o sbaglio? Dunque, qual è effettivamente il problema? Sta cercando di dirmi che suo figlio le ha confidato di essere omosessuale?
– Anche a ripensarci mi tornano le lacrime…
– Allora signora, mi spiega o devo mettere giù?
– No, no, mi scusi, ora le spiego. Qualche giorno fa è tornato a casa dicendo che gli piace una sua compagna di classe. All’inizio pensavo scherzasse, ma lui ha insistito. Allora ho iniziato a insospettirmi e ho voluto approfondire la questione: “Paolino mio, mi stai forse dicendo che ti piacciono solo le femmine?” E lui: “Sì mamma, dei maschi sono amico, ma non ne sono attratto.” Allora ho cercato di spiegargli che l’adolescenza è un periodo in cui è normale essere confusi, e che con il tempo le cose diventano più chiare, e che anche l’orientamento può maturare.
“Ma sei davvero sicuro? Gli uomini non ti piacciono neanche un pochino? Almeno un pochino!” La sua risposta mi risuona ancora nella testa: “Mamma, no! Mi dispiace, sono eterosessuale.” Al che mi sono arrabbiata. Forse non avrei dovuto, ma ho alzato la voce: “Siamo tutti almeno un po’ omosessuali! È assurdo sostenere il contrario, è da retrogradi e da razzisti.” E sa cosa ha avuto il coraggio di rispondere lui? “Mamma, ti prego, non mi giudicare. Voglio soltanto essere libero di amare chi preferisco. Non è colpa mia se sono così, cosa ci posso fare? E poi scusa, ma cosa centra il razzismo adesso?” Io: “Come cosa c’entra? La ragazza di cui dici di essere innamorato, non è forse caucasica come te? Già che ti piacciono le donne, almeno potevi scegliertene una di colore, no?”
Anche suo padre ha provato a parlargli, ma non è servito a nulla… Non so, forse siamo di un’altra generazione e non capiamo. I tempi cambiano, le persone anche. È che non è facile per un genitore, almeno all’inizio, accettare una cosa del genere.
Comunque ora devo proprio andare, è pronto il tacchino. La ringrazio dottore, forse avevo soltanto bisogno di confidarmi con un esperto. Buona giornata e in bocca al lupo per la maturità. –
Molti anni più tardi, Paolo vive con la sua compagna e ha due figli. La madre ha accettato la situazione e ha finalmente fatto pace con lui e con se stessa. Ha anche fondato un gruppo di ascolto per genitori che si trovano ad affrontare le stesse difficoltà. Dopotutto, ognuno è libero di amare chi vuole. Eppure, alle volte, di notte si sveglia ancora. Ma è il marito che rientra e sbatte la porta.
CAPITOLO 11
Con l’arrivo dell’estate e la chiusura delle scuole, è giunto il momento di pensare alle vacanze. Quale occasione migliore per viaggiare, scoprire posti incantevoli, conoscere persone, fare nuove esperienze? Purtroppo, prima di dedicarsi a tutto ciò, è necessario trovare una sistemazione per vostro figlio/i. Vi siete già liberati del gatto, legandolo alla sbarra del casello 15 all’imbocco dell’Autosole; i due pastori tedeschi invece verranno con voi, alloggiati nel baule insieme alle valigie. Ma i figli? Prima di iniziare a cercare un posto per loro, è preferibile conoscerne il numero esatto. (e.g. Se il numero di figli è 0, non ne vale neanche la pena). Ecco alcune delle soluzioni consigliate:
– Vacanza a tema, dai 4 ai 15 anni, min. 5 settimane, Giza. Il tema dell’anno corrente sarà: “Le piramidi nell’antico Egitto”. I bambini, dopo una breve introduzione e alcuni giochi per formare il gruppo, verranno vestiti da schiavi e inizieranno l’edificazione di una piramide. I genitori non si preoccupino: l’accuratezza storica sarà assoluta. Quando la piramide sarà pronta (150 metri di altezza, per un totale di oltre 7 milioni di tonnellate di granito), i bambini verranno rinchiusi nella camera mortuaria insieme al faraone. Si consiglia di portare un paio di scarpe comode.
– Campo estivo nel monastero delle suore di clausura del Gennargentu; permanenza minima: 6 mesi. Sveglia alle 4 di mattina: colazione a base di foglie di alloro e grappa. Dalle 4:30 fino all’ora di pranzo: traduzione dei manoscritti di Girolamo Savonarola dal latino al sardo. Ore 12: pranzo (digiuno). Durante il pomeriggio i ragazzi vengono lasciati liberi di scoprire la loro spiritualità, pregare, meditare e leggere le opere di Alberoni. Ore 18: cena a base di foglie di alloro e grappa. A seguire: canti gregoriani, ritiro nella cella e coprifuoco. Fine settimana: visita guidata ad un pozzo artesiano abusivo.
– Vacanza budget “L’Asia in un pomeriggio”, 0–99 anni. I partecipanti verranno caricati nella stiva di un aereo merci (imbarco: Orio al Serio BG, ore 14:45). Il velivolo sorvolerà a bassa quota i principali punti d’interesse del continente asiatico; non sono previsti scali. Dalle fessure della stiva sarà possibile ammirare la natura incontaminata del Nepal, le magnifiche città giapponesi, la casa di Gandhi, e molto altro ancora. Può capitare che la contraerea cinese dia problemi a causa del volo a bassa quota, ma di solito tutto si risolve a tarallucci di riso e sakè. L’equipaggio viene comunque internato in un carcere sull’isola di Xugong e processato dalla corte marziale. Rientro previsto in serata.
CAPITOLO 12
Se il trattare i bambini come fossero cani è pratica ben nota e poco interessante, volgiamo per un istante la nostra attenzione al fenomeno opposto: il trattare i cani come fossero creature perfettamente senzienti.
Alcuni giorni fa, cercando qualche ora di svago nelle prime giornate primaverili, leggevo un libro standomene tranquillamente seduto al parco. All’improvviso una voce acutissima e appena meno piacevole di una sirena antiaerea mi giunse prepotentemente all’orecchio. Era una voce, sia detto senza che alcuno s’offenda, femminile e piuttosto fastidiosa. Nonostante fosse primavera, mi parve di vedere alcuni fiori appassire velocemente per poi cadere a terra secchi. Quel martellio auricolare proseguì per alcuni minuti senza la minima variazione: – Andrea… Andrea… Andrea… –
Al che molti degli astanti, me compreso, si interrogarono sull’identità di questo misterioso Andrea. “Sarà un bambino, magari il nipote? O che sia forse una femmina? Magari, poverina, è sorda e non sente… La nonna l’ha chiamata tanto spesso da averle consumato la membrana esterna del timpano.” Quand’ecco che da dietro un albero sbuca un piccolo cane, per nulla turbato e senza mostrare la minima intenzione di rispondere al richiamo. Mentre la padrona, che ora l’ha visto, continua inalterato il suo ritmico lamentio, quello prosegue indisturbato il suo cagneggiare: cammina senza meta nell’erba, si ferma un istante, raccoglie un legnetto, lo risputa poco più in là.
L’incredibile dedizione con cui il cane ignorava il padrone, era inferiore soltanto alla dedizione del padrone nel chiamare il cane. Eppure fu la conversazione che seguì, se conversazione si può definire, che mi fece sorridere.
– Andrea, ora basta! È ben giunto il momento di finirla con i tuoi giochetti. Ti ho già detto più volte che è ora di tornare a casa, ma tu non mi ascolti. Non mi ascolti mai. Mi par sempre di parlar con i sassi. Quando è troppo, è troppo. – E nel dire ciò, assestò sul muso del cane due schiaffoni che, confesso, non mi sarei aspettato di veder tirati da una donnetta del genere.
Credo che dare ad un cane il nome “Andrea”, sia tanto fuori luogo quanto chiamare “cane” un qualsiasi tale di nome Andrea. Ma torniamo al nostro eroe: gli vien messo il suo cappottino e vien trascinato verso casa, mentre la padrona gli rimprovera in mille modi il comportamento scorretto, spregevole, immaturo. – Ma tu non ti vergogni proprio mai, Andrea? – chiede con voce lamentosa; e dato che la domanda non trova immediata risposta, viene reiterata per molti chilometri. Andrea resta muto, si lascia trascinare senza opporsi, probabilmente ha anche smesso di ascoltare.
Ad un certo punto riprende a camminare sulle sue gambe e trotterella via. Finché una voce ben nota non l’interrompe di nuovo: – Imbecille, non vedi che è rosso? Quante volte te l’ho già spiegato! E mi puoi guardare in faccia mentre ti parlo? – Il tutto, com’è giusto, condito da una manica di calci ben assestati. Il cane scuote la coda, probabilmente vorrebbe scuotere la testa.
Più avanti incontrano la signora Francesca, al che la padrona lo prende subito in braccio e comincia a fare mille moine e a baciarlo sul muso: – Il mio piccolo Andrea, tutto mio, mio! Bello lui, bellino cagnolino! Saluta la Francesca, salutala ho detto! Niente, oggi non è proprio giornata… – e lo lascia cadere sul marciapiede.
Giunti a casa, un piccolo monolocale senza balcone, non ha ancora perso il fiato: – Ma non vedi che siamo arrivati? Perché non ti togli il cappotto, allora? Cosa sei, un corallo? – Ma niente da fare, il cane non collabora. – Sono stufa di questo comportamento. Non sei più un bambino, lo vuoi capire o no? Io, ad andare avanti così, impazzisco. Ma chi me l’ha fatto fare di comprare un cane? Non potevo fare un figlio? –
Dopo una cena a base di spaghetti alle vongole mangiata dallo stesso piatto, vanno a letto senza proferire parola. Gli animi sono ancora accesi e probabilmente nessuno dei due ha voglia di parlare.
La mattina seguente risuona nel palazzo una voce: – Andrea… Andrea… Andrea… Dove ti sei cacciato? Ti ho perdonato per ieri, ma ora vieni, non farmi arrabbiare di nuovo. Vieni, che oggi ti devo portare dal parrucchiere dei cani. Dove sei? Dove sei, figlio mio? –
Sul tavolino della cucina c’è un biglietto. “Addio” dice. È chiaramente la calligrafia di un canide.
Manuale di pedagogia ornamentale vol. 2
AVVISO AI LETTORI
A seguito dell’uscita del primo volume di Pedagogia Ornamentale, l’editore si è detto assolutamente contrario alla pubblicazione di qualsiasi opera passata o futura scritta dall’autore. Ha poi fatto di tutto perché le 500.000 copie stampate fossero ritirate dal mercato, e perché fossero bloccate tutte le traduzioni estere. La maggior parte delle copie però era già stata smerciata, sia in Italia che in molti altri stati della CECA, rendendo vano ogni sforzo.
Visto il successo dell’opera, per assicurare ugualmente ai lettori la possibilità di completare la collana, tutti i futuri volumi verranno venduti in edicola. La prima uscita conterrà, a scopo promozionale, un set di pratici pannolini double-face per il vostro fanciullo.
Per ulteriori informazioni, rivolgetevi al vostro edicolante di fiducia.
CAPITOLO 6
Alcuni mesi fa, dopo il mio intervento ad un convegno di pedagogia a Rio de Janeiro, si alza in piedi un padre e mi pone una domanda che ora riporto, dal momento che può essere di qualche interesse per molti di voi genitori. Mi dice: –In questo periodo, purtroppo, io e mia moglie litighiamo parecchio. Probabilmente ci stiamo avviando lungo la strada per il divorzio. Solitamente cerchiamo di discutere soltanto quando nostro figlio non è in casa, però temo abbia intuito che qualcosa sta succedendo. Come possiamo far sì che affronti la situazione il meno traumaticamente possibile?–
Ecco la mia risposta, si prenda eventualmente nota: –Mi consenta di dirle che l’approccio suo e della sua futura ex-moglie è totalmente sbagliato. In molti cercano di proteggere il bambino da eventuali tensioni domestiche, spinti da quanto ha insegnato la pedagogia tradizionale. In tante altre occasioni l’ho detto, e qui lo ripeto: smettetela, una volta per tutte, di rinchiudere vostro figlio in una bolla dorata. Continuando con questo atteggiamento iperprotettivo, dimostrate al bambino che non vi importa nulla della sua esistenza all’interno del nucleo familiare. Egli finirà per sentirsi escluso, ignorato, accessorio. Bisogna coinvolgerlo nella discussione invece, spiegargli quali sono i problemi e come lui ne faccia parte, ed infine occorre responsabilizzarlo. All’occorrenza anche iper-responsabilizzarlo, affinché si senta partecipe, e finalmente considerato come un’entità capace di intendere e di volere.–
Permettetemi ora di spiegare come iper-responsabilizzare vostro figlio.
Un pomeriggio in cui sta giocando nella sua cameretta, e vi pare particolarmente sereno, inscenate una violenta lite con il vostro compagno. Dopo circa una mezzora passata ad urlare parole taglienti e a frantumare vasellame contro le pareti, controllate di nascosto come si comporta il bambino. Se ha smesso di giocare con le palline di mercurio del termometro e si preme un cuscino contro le orecchie, abbracciato al suo peluche preferito, è il momento di agire. Prendetelo di peso e mettetelo in piedi sul tavolo della cucina, perché veda i cocci per terra e comprenda l’effettiva serietà della situazione. A quel punto dovrete dirgli, con voce ferma: –Caro Giacomino, io e tuo padre dobbiamo dirti una cosa molto importante. Dal momento che sospetto ti piaccia pensare di non essere la causa dei nostri attriti di coppia, è giusto che tu sappia che ti sbagli di grosso. Prima che nascessi tu, ad esempio, non litigavamo quasi mai. Sarà un caso? Non credo proprio. Le cose stanno andando sempre peggio, e tu cosa fai? Ti nascondi sotto un cuscino e ti alieni dal mondo. Ti sembra il modo giusto di affrontare la realtà? Forse credi che, semplicemente perché vai ancora all’asilo, non hai anche tu i tuoi doveri e le tue responsabilità? Lasci sempre camera tua in disordine, non negarlo, non giochi quasi mai da solo e, come se non bastasse, di notte spesso e volentieri ti sentiamo piangere. Insomma, sei totalmente dipendente da noi genitori. Anche noi siamo esseri umani, sai? Lo avevi capito? No, evidentemente no. Anche noi dobbiamo avere i nostri spazi, i nostri momenti d’intimità, la nostra vita.
Vorrei poter dire che sei in parte responsabile dello sgretolarsi di questo matrimonio, ma mentirei, insultando così la tua e la nostra intelligenza. No, Giacomino, la verità è che sei l’unico responsabile. L’unico. E adesso scendi dal tavolo che sporchi tutta la tovaglia con le scarpe.–
A questo punto, lasciando vostro figlio a casa perché abbia il tempo di meditare sull’accaduto, potete concedervi una serata romantica con il vostro compagno, magari in un ristorante di lusso che sta per essere chiuso dall’ASL. Dopo quel giorno l’intesa tra di voi, avendo un nemico in comune, sarà ristabilita, e riscoprirete l’antica fiamma dei primi tempi. La passione non dura in eterno ovviamente, ma quando ne avvertirete l’indebolirsi, vi basterà fare un altro bambino.
Qualcuno potrebbe obiettare che Giacomo rifarà esattamente le stesse cose con i suoi figli. Niente di più sbagliato. Giacomo non avrà mai dei figli.
CAPITOLO 7
Una notte mi chiama una mamma da Torino e mi dice: –Sono disperata, non so più cosa fare! Mio figlio è diventato luterano.–
Io: –Mi scusi signora, ma non poteva chiamarmi domani? Sono le tre e mezza di mattina!
–Lo so, ma è l’unico momento in cui posso usare il telefono. Mio marito di notte fa il turno in un rettilario e poi dorme di giorno. Ha il sonno leggerissimo e se lo svegliamo s’imbestialisce e ci chiude sulla terrazza. È già successo tante volte.
–Capisco. Comunque, per la questione del figlio luterano, cosa intende precisamente?
–Guardi, me ne sono accorta solo qualche giorno fa. Sono entrata nella sua stanza e ho visto che dal muro erano sparite tutte le foto delle donnine; al loro posto aveva attaccato un grosso poster con scritto sola fide, sola scriptura. Mi dica lei una povera mamma cosa è costretta a vedere! E non è tutto: in salotto è comparso un enorme cartonato fotorealistico di Lutero, in scala 3:1. Per farcelo stare ha dovuto fare un buco nel soffitto.
–Mi faccia capire bene. Il vostro problema è che siete ferventi cattolici e considerate la dottrina luterana come un’eresia?
–No, guardi, io e mio marito siamo aborigeni. Qualche volta veneriamo le lucertole, ma non siamo granché praticanti. Il fatto è che nostro figlio si chiude in camera per ore e non c’è modo di farlo uscire. E poi lavora di notte al lume di candela e legge, traduce, studia… Mi sta diventando cieco!
–Signora, non so come dirglielo, ma questa storia l’ho già sentita tante altre volte. È sicura che non si tratti di una scusa, e che magari in questo periodo il ragazzo sta scoprendo il suo corpo?
–Eh, lo pensavo anche io all’inizio, ma invece no, purtroppo. Un giorno che era fuori sono entrata nella sua camera per controllare sotto il letto. Indovini un po’, ho trovato solo seicento numeri del settimanale “Lutero 2000”. Quante lacrime, figlio mio, quante lacrime…
–Signora, la prego non pianga. Confesso di non riuscire ancora ad afferrare il problema. A lei cosa importa se suo figlio fa quello che fa?
–È proprio questo il punto: in casa non fa più nulla! Prima almeno dava una mano a preparare il tavolo e a volte stendeva. Non che fosse di grande aiuto, però almeno il pensiero… Ora appena si alza da tavola fa una preghierina in un angolo e va a dormire; poi mi sta sveglio tutta la notte. Io gli dico che non vive in un motel e che deve contribuire alla vita domestica, ma non c’è niente da fare; non fa che ripetermi che le opere non servono a nulla e che devo soltanto avere fede. Io la fede ce l’ho anche, ma quando vedo che la sera mi ha lasciato tutti i piatti nel lavandino, quattro schiaffoni in faccia glieli tiro. Un giorno allora l’ho preso da parte e ho provato a farlo ragionare: –Figlio mio, visto il tuo comportamento, come pretendi che io e tuo padre possiamo dimostrare indulgenza?–
Ma lui si è messo subito ad urlare come un disgraziato: –Satanasso di una madre, non osare mai più dire quella parola in mia presenza!
–E suo marito come si comporta?
–Ma, ogni tanto lo randella con il suo didgeridoo di due metri, ma non serve a nulla…
–Mi scusi, ma il ragazzo quanti anni ha?
–38.
Un po’ perché non sapevo cosa dire e mi ero stancato di stare al telefono, un po’ per coerenza storica, le ho spiegato il principio del cuius regio, eius religio. La mamma aborigena sembrava molto soddisfatta e mi ha ringraziato. Continuava a ripetersi: –Eh sì, perché non ci ho pensato io: fin che sei in casa mia, fai come dico io!–
Ora quel tizio ha 62 anni, vive ancora con i genitori e lavora in un negozio di mongolfiere per cani. Come hobby costruisce maracas con le lattine di chinotto, e Lutero, diciamocelo, se l’è un po’ dimenticato. Qualche volta venera le lucertole, ma più che altro per passare il tempo.
CAPITOLO 8
In fatto di punizioni lignee la Svezia è lo stato più all’avanguardia del mondo. Molti negozi offrono soluzioni all-inclusive per la punizione creativa del proprio bambino. Solitamente si tratta di grosse strutture in abete e giunti in titanio che si montano in pochi semplici passaggi, con l’ausilio di una brugola del sei e un cannello della fiamma ossidrica. In caso doveste incontrare difficoltà durante il montaggio, un tecnico specializzato sarà felice di aiutarvi a domicilio, mettendo a disposizione la sua trentennale esperienza nel settore.
Ecco un esempio. Avete passato l’intero pomeriggio a gridare a vostro figlio di non correre per casa, che poi suda. Il fanciullo fa orecchie da mercante? Niente di meglio per una dimostrazione dell’ultimo ritrovato in fatto di castighi rotanti: il drunknå. (affogatoio, ndr.).
Aperta la scatola, si procede al facile montaggio: unire il pezzo A con il pezzo B mediante brugola C. Ecco che ci avviamo già al termine, rimangono soltanto gli ultimi ritocchi. Con l’ausilio del cannello dovrete fondere le estremità dei pannelli di amianto catramato (acquistati a parte) al fine di impermeabilizzare una stanza a scelta della casa. Si raccomanda di proteggere l’apparato respiratorio mediante una maschera con filtri doppi del tipo E59c; in caso non ne siate in possesso, anche uno strappo di Scottex va bene.
Passaggio facoltativo: si consiglia di lasciare areare il locale dove sono stati fusi i pannelli di amianto catramato per circa tre mesi.
A questo punto dovrete unire il pezzo AB con il pezzo D, mediante brugola C. Se avrete seguito le istruzioni attentamente, il risultato dovrebbe presentarsi così: un’imponente ruota da criceto di 8 metri, libera di ruotare intorno al perno centrale.
Nel caso in cui la vostra creazione non assomigli nemmeno vagamente a quanto descritto, si consiglia di contattare il tecnico (il numero verde si trova all’ultima pagina del manuale). Se inavvertitamente avete costruito una vergine di Norimberga a forma di piccolo Budda, se ne sconsiglia l’utilizzo senza la supervisione di un adulto, e si declina comunque ogni responsabilità.
Ipotizziamo dunque che il tecnico sia venuto a casa vostra, abbia montato l’intera struttura e, rivelatosi particolarmente loquace, vi abbia raccontato la storia della sua vita. Da quando fa quel lavoro è diventato sterile, vi dice pensieroso, e non può più avere figli. Eppure ha quasi sempre utilizzato uno strappo di Scottex piegato doppio quando bruciava l’amianto! Insomma, la moglie l’ha lasciato per un domatore di cammelli ed ora vive felice con tre figli, mentre lui è solo e triste.
Già che è lì, vi aiuta ad ultimare il drunknå.
La ruota va spostata nella stanza impermeabilizzata, la quale viene riempita d’acqua per circa un metro e mezzo, così che la parte bassa del drunknå sia interamente sommersa. Ora chiamate vostro figlio. Egli ovviamente arriverà di corsa, nonostante i vostri mille rimproveri, e anche perché ancora non sa cosa lo aspetta. Afferratelo saldamente e deponetelo nella ruota. Il fanciullo, per restare a galla e non affogare, sarà costretto a correre più velocemente possibile senza potersi fermare un attimo. Ecco che il contrappasso per analogia rivela un’eleganza tipicamente svedese.
–Volevi correre? E adesso corri, corri quanto ti pare piccolo mio!–
Potrebbe accadere che i bambini più svegli, esausti per tutto quel moto, si lascino galleggiare per riprendere le forze. In questo caso dovete usare nuovamente il cannello della fiamma ossidrica e portare l’acqua a temperatura di ebollizione. Problema risolto.
A questo punto potete ringraziare il tecnico, salutare il vostro piccolo maratoneta e finalmente regalarvi quella vacanza da sogno che da così tanto tempo desideravate.
Passato un mese, decidete di tornare. Salutate le spiagge del porto industriale di Livorno e prendete il treno. Ma arrivati a casa, è un orrore quello che vi accoglie. I pannelli catramati all’amianto (comprati in un emporio cinese) non hanno tenuto e si sono disciolti nell’acqua, che si è sparsa ovunque, fin fuori in giardino. Tutte le piante sono morte avvelenate.
E vostro figlio? Eccolo che corre per i corridoi, sulle scale e nell’androne, sudatissimo.
Al che montate veramente su tutte le furie, anche ripensando agli 80.000 euro che avete speso per comprare il drunknå.
Cercate il manuale e chiamate il tecnico, sempre felice di aiutarvi con la sua trentennale esperienza nel settore delle punizioni semoventi. Dopo una breve discussione, accetta di adottare il bambino.
Manuale di pedagogia ornamentale vol. 1
INTRODUZIONE
La pedagogia tradizionale è fallace fin nelle premesse. Il suo precettismo ha saputo rovinare generazioni intere di figli e di genitori, limitandosi a fornire assiomi per ogni fase della crescita. Fino ad oggi ci siamo illusi di poter allevare i nostri figli seguendo con attenzione dei dogmi e imponendo loro dei limiti. Niente di più sbagliato. Lo sviluppo del bambino non deve essere quello della pianta che cresce costretta in un vaso, ma quello della pianta che cresce libera in mezzo al cielo.
Noi siamo dunque per una pedagogia che parta dall’istinto e, un po’ approssimativamente, arrivi dove deve arrivare. Una pedagogia olistica che sappia dare risposte concrete alle necessità del bambino, lasciando che questo sia libero di muoversi nel mondo con le sue gambe fin da subito, quando non sa ancora gattonare. Una pedagogia innovativa, moderna, liberata finalmente da ogni schema. L’efficacia si misurerà con il tempo, ma la comodità si può sperimentare fin da subito. Assistiamo al nascere di una nuova scienza dell’educazione: la pedagogia ornamentale.
PREFAZIONE
Nello scrivere questo manuale si è voluto evitare di riproporre il classico prontuario per genitori, con gli argomenti ordinati in capitoli e una trattazione esaustiva. Si è preferito invece lasciare che una certa confusione permeasse ogni cosa, per evitare che chi legge s’illuda di poter affrontare la questione con lucidità. Crescere un bambino non è facile, fatevene una ragione.
Per sfuggire, come si è detto, ad ogni possibile preconcetto legato alla pedagogia tradizionale, si è deciso di affidare la redazione di questo manuale ad un adolescente di Brescia. Egli, essendo figlio unico e avendo un pessimo rapporto con i genitori, può donare alle scienze educative uno sguardo veramente nuovo e innovativo. Il suo nome, già entrato nel novero dei grandi pedagoghi, è Jason Martazzoli (che poi sarei io stesso. Mi sto scrivendo la prefazione da solo).
CAPITOLO 1
Molto spesso durante gli incontri con i genitori che tengo in giro per il mondo, mi sento fare la stessa domanda: – Cosa devo fare se mio figlio si mangia una felce? – Rispondere non è sempre facile, anche per rispetto dei genitori. Solitamente cerco di prendere tempo e chiedo i dettagli:
– Il bambino era stato abituato a mangiare felci già da piccolo? Se sì, quante porzioni al giorno?
– La felce in questione era stata lavata con il Solvay, oppure l’ha brucata direttamente nel bosco?
– La pianta è stata mangiata fin nella parte lignea o solo parzialmente?
Se è stata mangiata solo parzialmente, provate con un po’ di concime che magari si riprende. Non assicuro niente però, non sono un giardiniere, e poi le felci son piante particolari.
Se invece aveva un forte valore affettivo e dopo il morso si secca tutta, allora è il caso di pensare ad una punizione. Il tema è molto delicato e lo tratto più approfonditamente in altre sedi. La chiave comunque, come dico sempre, è saper nascondere la ferocia nella spensieratezza. Non tutti capiscono, soprattutto i nonni. Se i nonni vi crescono male i figli è un peccato. Un domani però potrete scaricare tutte le colpe su di loro, il che vi deresponsabilizza e contribuisce ad un clima familiare più disteso. Come punizione per aver mangiato una felce di solito si consigliava il classico “a letto senza cena”. Qui e altrove emerge l’assurdità di certi metodi beceri della pedagogia tradizionale. Se uno si è già mangiato la sua felce, cosa gli importa di saltare la cena? Poi magari si alza di nascosto verso le quattro, apre il frigo, e si scola un cartone intero di caglio.
Una punizione più adatta potrebbe essere questa: lasciate passare qualche tempo e fingete di aver dimenticato l’accaduto. Poi un giorno, appena prima di andare a prendere vostro figlio a scuola, date fuoco alla casa. Ecco che quando vedrà quella che noi chiamiamo zona sicura del bambino completamente carbonizzata, gli verrà facilmente una crisi. A quel punto voi, con voce tranquilla, potete spiegargli: – Ti ricordi di quando, alcuni mesi fa, ti sei mangiato una felce? Ecco il risultato. Ora grazie a te non abbiamo più una casa e siamo costretti a vivere nei bagni della stazione. Dovrai vendere fazzoletti di carta al semaforo per 18 ore al giorno, e dormirai in una scatola da scarpe. Bravo Filippo, bravo davvero.
Il bambino probabilmente non mangerà più felci.
CAPITOLO 2
Qualche notte fa mi chiama una mamma in lacrime e mi dice: – A mio figlio non piace Lucio Dalla. Non so più cosa fare… Io: – Mi scusi signora, con tutto il rispetto, ma sono le tre della mattina. Non poteva chiamarmi domani?
– Ho la bolletta a fasce orarie, di notte spendo meno in corrente. Le lavatrici però le faccio la mattina, che se la roba rimane dentro poi puzza e i colleghi di mio marito si lamentano.
– D’accordo. Per quanto riguarda Dalla non saprei cosa dirle. Suo figlio quanti anni ha?
– Ne compie due oggi; infatti mi scusi ma ora devo lasciarla. Voglio preparare la torta di compleanno prima che si svegli e ho ancora tutti i festoni da appendere. Buone cose.
Di bambini piccoli a cui non piace Lucio Dalla non ce ne sono molti. Tuttalpiù rimangono indifferenti. Solo una volta mi è capitato un caso simile. Mi telefona (sempre di notte) una mamma boscimane che vive a Lambrate, e si lamenta che il figlio non apprezza il cantautore. Io cerco di farla ragionare: forse non capisce bene i testi, o magari preferisce la musica classica. Molti anni dopo si è scoperto che il bambino era completamente sordo.
Questo per dire che non si devono obbligare i propri figli ad ascoltare un certo stile musicale o un certo cantante. I bambini devono crescere liberi di scegliere e sperimentare quello che vogliono. Se invece è il vostro cantante preferito, e ci tenete parecchio, allora dovete imporvi con la forza.
Ecco una storia esemplare: molti anni fa, in Umbria, c’era un progettista di betoniere che, da quando la moglie lo aveva lasciato, viveva da solo col figlio. Il bambino fin dalla materna non voleva saperne di ascoltare Steve Reich. Il padre aveva provato ogni strada possibile per fargli piacere la sua musica; una volta aveva anche inscenato un sequestro, ma poi gli era dispiaciuto e aveva lasciato perdere. Comunque non c’era mai stato niente da fare. Così un giorno si licenzia dal suo lavoro, vende casa e automobile e con i pochi risparmi compra un camper usato. Ci carica il figlio e parte per un lungo viaggio attraverso la Russia sovietica. Con loro non hanno che poche provviste e delle vecchie riviste di equitazione, ma il padre ha sapientemente nascosto nel cassetto del cruscotto l’opera omnia di Steve Reich. E così, fin dalla mattina, dal mangiacassette del camper rimbombano a volume altissimo Sextet o Music for 18 musicians. Senza pause, fino a sera. I due viaggiano per anni attraverso la Siberia e anche in altri posti del mondo. Un giorno il figlio si scoccia e scende al casello di Verona nord. Oggi lavora in banca, reparto finanziamenti e microcredito; vive da solo e non ha ancora finito di pagare il mutuo della macchina. La sera torna casa e, sdraiato al buio, ascolta Lucio Dalla.
CAPITOLO 3
Se vostro figlio non ha voglia di fare i compiti non spaventatevi, è del tutto normale. Se invece vostro figlio non ha mai voglia di fare i compiti, allora probabilmente c’è un problema. Le statistiche più aggiornate mostrano che l’82% dei bambini soffre di floscezza intellettiva. Lo stesso vale per la maggior parte degli animali di piccola taglia. Se in casa sentite spesso frasi come:
– Non ho voglia, lo faccio dopo. Promesso
– Ancora qualche minuto, poi mi alzo
– Adesso che ho fatto quasi tutti i compiti di storia vado a giocare con i sacchetti di plastica
– Non ho più fame mamma. Voglio diventare buddista
– Mi sento addosso uno strano senso di letargia. Mi stanco molto più in fretta dei miei coetanei e spesso mi scopro spossato dopo aver fatto le scale. Temo di soffrire di floscezza intellettiva.
Se sentite spesso queste frasi, probabilmente vostro figlio soffre di floscezza intellettiva. Una volta accertata la diagnosi (si fa tutto in casa, con un kit che regalano in farmacia) si può procedere con la somministrazione degli psicofarmaci. L’industria offre una vasta gamma di soluzioni personalizzate che sanno rendere l’assunzione un momento anche giocoso. Le pastiglie hanno forme divertenti; ad esempio alcune sono a forma di giraffa, altre di palombaro, su altre ancora è possibile far stampare la faccia della nonna. I coloranti sono al 100% di derivazione naturale, a parte il rosso borgogna che è di sintesi.
La posologia è molto flessibile: di solito si consiglia l’assunzione di 700, 800 quintali di farmaco nell’arco di un’intera vita. Tutto dipende da quanto se ne riesce a prendere ogni giorno. Mettiamo che convinciate vostro figlio a mandar giù 50 giraffette al giorno (1 giraffetta = ca. 200 g). Così facendo, dopo ventidue anni si può sospendere la cura. Bisogna però stare attenti a non sospenderla prima, per nessun motivo.
Molti di voi genitori sono diffidenti circa l’utilizzo di psicofarmaci sui loro figli. Va bene, posso anche capirvi. Ecco l’alternativa: dal momento che il vostro bambino soffre di floscezza intellettiva, bisogna sottoporlo a stimolazione continua. Fate sì che sia sempre impegnato a fare qualcosa. La mattina, ad esempio, organizzate una passeggiata di circa 65 Km lungo il cammino di Santiago; fategli conoscere gente, vedere posti nuovi. I musei sono la soluzione più efficace. Ogni pomeriggio una mostra diversa: lunedì una personale di Pollock a Palazzo Reale a Milano, martedì una mostra-mercato sui canti delle mondine pavesi al MoMA. Se non potete permettervi i musei, anche il circo con gli animali va benissimo. Insomma, non concedetegli mai un attimo per riposarsi, anche se vi supplica in ginocchio. La sua mente non deve avere il tempo d’essere debole.
Ma ecco che la sera, dopo Santiago, le mondine, i leoni di Moira Orfei e tutto quanto vi dice: – Mamma, sono stanchissimo, non mi reggo più in piedi. I compiti li faccio domani, giuro.
Al che andate in farmacia e ordinate 800 quintali di psicofarmaci a forma di palombaro.
CAPITOLO 4
Un bel progetto del Comune di Milano è stato quello di trasferire i centralini del telefono azzurro direttamente dentro il carcere di San Vittore. I detenuti così hanno l’occasione di sentirsi utili e non perdono il contatto con la realtà. Di solito il bambino medio chiama il centralino intorno alle 20:30. I problemi sono sempre gli stessi:
– I miei genitori litigano spesso, anche se mi ripetono che io non c’entro
– A volte, dopo aver litigato, mi chiudono per ore nel mobiletto del bagno insieme agli spazzolini
– Credo che mia nonna non si lavi abbastanza
– Mi sono innamorato della mia vicina di casa polacca, ma non capisco se è vero amore
Il detenuto cerca di dare delle risposte basandosi anche sulla sua esperienza dietro le sbarre, il che poi è un pretesto per raccontare al bambino tutta la sua vita. Se l’assistente sociale (che ascolta tutte le conversazioni) ritiene che tra i due si sia instaurato un rapporto di fiducia reciproca, fissa un appuntamento. Il malvivente e il bambino allora si incontrano in un bar vicino a Vercelli e hanno un po’ di tempo per parlare di persona. La maggior parte delle volte il detenuto coglie l’occasione e rapisce il bambino. Chiede un riscatto di 100.000 fiorini ungheresi (circa 300 euro) e di essere tradotto nel carcere di massima sicurezza di Cracovia. Per il bimbo è anche una bell’esperienza, e per un po’ si dimentica dei problemi domestici. Poi interviene l’assistente sociale e rovina tutto.
Il Comune allora ha deciso di spostare i centralini nella bocciofila di Novate Milanese. I vecchietti di solito fanno squillare il telefono e non rispondono. Un po’ sono sordi, un po’, diciamocelo, se ne approfittano.
CAPITOLO 5
Al genitore italiano capita spesso di dover affrontare il problema dell’innamoramento del figlio piccolo. Come consiglio generale direi che bisognerebbe sgridarlo e fargli passare la voglia subito. Anche perché la maggior parte delle volte lo fa apposta per saltare le verifiche. Può anche succedere però che un bambino tra i 3 e i 5 anni di vita si innamori veramente. In tal caso bisogna ritirarlo immediatamente da scuola e iscriverlo in un istituto privato gestito dalle suore Orsoline. Un segnale d’allarme per capire che è il momento di agire, è quando vostro figlio vi chiede come vi siete conosciuti. Ecco come rispondere: – Caro Albertino, mi ricordo ancora la prima volta che vidi tua madre. Eravamo tutti e due in vacanza a Pesce Luna di Fiumicino. Legambiente la considera la spiaggia più inquinata e piena di rifiuti di tutta l’Italia. Infatti i nostri genitori ci obbligavano a stare tutto il giorno in albergo. Anche la piscina dell’albergo però era piena di rifiuti; una notte, ad esempio, qualcuno ci aveva scaricato dentro un tram. Dallo stanzino delle scope dove mi avevano rinchiuso, vedevo la finestra della camera di tua mamma. Un giorno ho trovato una roccia basaltica in un angolo e l’ho tirata contro il suo vetro. S’è sfondato tutto. Ho subito comprato dei fiori e sono andato a trovarla in ospedale, dal momento che era stata colpita alla testa da un meteorite. Così ci siamo innamorati. E adesso vai a dormire; bada bene che non voglio mai più sentire tutte le bestialità sull’amore che hai detto ultimamente. Se scrivi un’altra poesia mi arrabbio. Sei piccolo e non capisci niente.
La disapprovazione dei genitori dovrebbe essere un deterrente sufficiente a farlo smettere. In caso contrario potete provare a comprargli un cane e poi, appena si affeziona, seppellitelo in giardino. Anche una vacanza-lavoro in una colonia penale di Mestre potrebbe funzionare. Se il bambino insiste, lasciate fare.
Della zuppiera in duplice copia
Mio nonno morì quando ero ancora bambino, e di lui non possiedo molti ricordi. Eppure, quei pochi che la memoria ha saputo trattenere sono infissi con tale lucidità nella mia mente che, nel rievocarli, riscopro le stesse emozioni che avevo provato un tempo, e mi par di risentir le voci, gli odori e financo i pensieri di allora.
Di mio nonno ricordo la bella persona, slanciata e dignitosa nelle movenze, in cui forse da giovanissimo mi parve d’individuare una certa affinità fisica, il che rese la simpatia che provavo per lui ancor più profonda. Tuttavia ciò che più d’ogni altra cosa lo rendeva così caro ai miei occhi, e che rafforzava quel legame che a volte può nascer solo saltando una generazione, era il suo contegno. Nelle parole e nei gesti che egli aveva per me, era insita per natura quella severità bonaria che i fanciulli preferiscono sì maggiormente trovar negli adulti; questo poiché, quando a carezzarli e a rimproverarli è la stessa fermezza, par loro di scoprire un’integrità d’intenti esemplare.
Un ricordo in particolare è serbato nella mia memoria con grande chiarezza, forse poiché fu l’ultimo che ebbi la fortuna d’aggiungervi. Mio nonno possedeva due zuppiere da insalata in fine ceramica, decorate da un tratto deciso e pulito secondo un gusto che ormai si direbbe antico, e che ben rispecchiava la sua personalità. Non saprei dire dove le avesse acquistate o se le avesse ricevute in dono, ma nella mia fantasia di fanciullo quei due oggetti erano intimamente legati alla sua figura. Anche ora, nel rievocarne l’immagine, non riesco ad ignorare quel legame che associa, con la forza d’un simbolo, la persona all’oggetto. Ad esser precisi però, solamente una delle due zuppiere può dirsi realmente importante nel mio ricordo. Questo poiché, sebbene fossero esattamente identiche, solamente una veniva utilizzata, mentre l’altra se ne stava rinchiusa dietro al vetro della credenza. Il nonno, in un vezzo dovuto forse all’età, e che proprio per l’età gli si perdonava, aveva preso abitudine di consumare tutti i pasti nella zuppiera e, dacché ho memoria, così aveva fatto senza che mai vi fosse stata eccezione. A guardar da vicino, non sono forse queste innocue stravaganze dei vecchi del tutto simili a certi capricci che i genitori più permissivi concedono ai loro figli?
Non occorreva di rado che pranzassi assieme ai miei nonni e, nel silenzio così dignitoso e composto che calava sulla tavola, mi scoprivo osservar di nascosto i lineamenti severi del nonno che mangiava. Alle volte accadeva che egli, sollevato lo sguardo e incontrati i miei occhi curiosi, schiudesse la nobile bocca in un sorriso sottile. Benché il ricordo sia ancora vivido nella mia mente, non so ora descrivere a parole l’emozione che suscitava in me quel raro gesto. I quadri immobili appesi ai muri, tra i quali riecheggiava il ticchettio della pendola nel silenzio del pasto, e la nonna seduta al mio fianco e il nonno a capotavola dietro alla zuppiera, rappresentavano le cose esattamente come dovevano essere, com’erano state da sempre e come per sempre sarebbero state. La sicurezza di trovare quel luogo immutato era la segreta ragione per cui desinarvi mi procurasse tanto piacere.
Un giorno mi accorsi che sul bordo della zuppiera correva per qualche centimetro una sottile linea nera. Dapprima la credetti essere un capello; tuttavia l’indomani la scoprii ancora presente, ed anche più lunga di qualche centimetro. Ben presto capii che si trattava di un’incrinatura, e che questa andava avanzando lungo la ceramica. Nessun altro se ne era accorto, giacché era ben più sottile di quanto l’occhio d’un anziano potesse vedere. Vorrei poter spiegare il motivo per cui non avvertii io stesso il nonno, ma così come mi era oscuro allora, m’è adesso. Mi limitai invece a studiare di volta in volta, con attenzione quasi scientifica, il progredire silenzioso di quella cricca. Non mi interrogai mai su cosa sarebbe successo quando avrebbe raggiunto il bordo opposto della zuppiera; osservavo soltanto, nel silenzio del pasto, ascoltando il ticchettare della pendola e il rumore delle posate.
Trascorse così del tempo, abbastanza perché l’osservazione della crepa perdesse di interesse e, visto che nulla sembrava accadere, finii per dimenticarmene. Poi un giorno, alcuni mesi più tardi, mentre io e mio nonno eravamo seduti in attesa del pranzo, mia nonna, che apparecchiava la tavola, posò la famosa zuppiera sopra la tovaglia e questa, senza alcun suono, si aprì a metà come una conchiglia. Ricordo con estrema chiarezza i momenti che seguirono; dapprima mi prese un certo spavento, e poi mi scoprii attendere preoccupato la reazione del nonno. Temevo si sarebbe arrabbiato, benché non fosse di natura iraconda; magari avrebbe anche sgridato mia nonna, che pure non aveva colpa. Del resto, cercai di rassicurarmi, dal momento che la zuppiera poteva esser facilmente sostituita con la sua gemella, non era poi un gran danno quello accaduto. Mio nonno invece non si arrabbiò; rimase zitto per qualche istante, fissando con fare imperscrutabile i due cocci quasi simmetrici che aveva davanti. Poi s’alzò e, con quella che a me parve una certa solennità, li raccolse e li gettò via. Infine, mentre io e mia nonna lo osservavamo in silenzio, aprì la credenza, ma invece di prendervi l’altra zuppiera come ci aspettavamo, scelse un piatto qualsiasi e tornò imperturbato a sedersi. Non ricordo altro di quel giorno, se non che quando fu il momento di coricarsi, nella segreta intimità del mio letto, mi abbandonai ad un lungo ed inspiegabile pianto.
Pochi mesi dopo mio nonno s’ammalò d’una malattia polmonare e, senza che l’infermità riuscisse a prostrarlo nello spirito, si spense. Quando i miei genitori mi comunicarono quella notizia fui preso da grande tristezza e, tra le braccia materne, non seppi trattenere i singhiozzi. Strano a dirsi però, mi scoprii versare meno lacrime di quante ne avessi avute per la zuppiera spezzata, il che mi turbò vagamente all’epoca, e m’è oggi del tutto inspiegabile.
Molti anni più tardi, quando raggiunsi la maggior età, fui messo al corrente dei beni che mio nonno aveva voluto lasciarmi. Oltre ad un piccolo capitale ed alcuni suoi libri, nel testamento compariva la seconda zuppiera, la gemella intonsa che per tanti anni era stata chiusa dietro al vetro della credenza. Tutti si interrogarono su quella che a loro pareva una stranezza, ed io non seppi, e forse neppure volli, dare alcuna spiegazione. Mi prese invece una strana nostalgia, che fu però presto scalzata dalle mille altre preoccupazioni d’un ragazzo che si appresta a diventare uomo.
Ora che la maggior età l’ho raggiunta per più di tre volte, ripenso con piacere a quei momenti, non senza una vena di malinconia. Eppure quella zuppiera non l’ho mai utilizzata; la conservo dietro al vetro d’una credenza, ed ogni tanto le lancio uno sguardo. Forse attendo d’esser più vecchio, d’avere un sorriso più severo, d’avere un nipote. Forse invece ho soltanto paura di romperla.
Del fusillo sopra la penna
Ovvero di come, con prova dapprima linguistica e a seguitare più ampia, venga dimostrata l’assoluta superiorità del primo sulla seconda.
Cominci il nostro ragionare con un’analisi del vocabolo penna. Se uno scolaro superficiale e svogliato potrebbe cercar l’origine nel latino pĕnna (ala, in italiano), per amore di verità e onestà intellettuale ci incarichiamo noi di mostrar l’etimo primo. Il legame linguisticamente più rilevante si ha con pena (dal lat. pōena; punizione, sofferenza), da cui si giunge (per geminazione consonantica) appunto, a penna. Per quanto riguarda il già citato, più debole, legame con ala, si tenga a mente che nella lingua dei britannici alas! è inequivocabile esternazione di pena (traducibile con l’italiano aimè!). La famiglia lessicale appare a questo punto in tutta la sua sferzante trasparenza: pena, rammarico, mestizia, inadeguatezza e, non da ultimo, incapacità di rapportarsi col proprio Io. (cfr. Il disagio della civiltà, Freud S.)
Voglia ora il Lettore volgere la sua preziosa attenzione all’etimo dell’altra parte in causa: il fusillo. Possiamo immediatamente individuare una lampante vicinanza linguistica con il lemma fuso, effettiva radice etimologica. Il fusillo ha dunque forma di fuso: è affusolato, elicoidale, ricorda la forma di una spirale.
Chi scrive non vuole insultare l’intelligenza del Lettore nel mostrare ciò che appare, giunti a questo punto, fin troppo evidente. Il modello o, come è stato chiamato da alcuni, archetipo del fusillo non può che essere ciò che ha sembianze spiraliformi per eccellenza: l’oggetto astronomico che gli antichi hanno battezzato, studiando il nostro Universo, Galassia. Dunque definire il fusillo come universale assume ora un valore sia filosofico che letterale, come la parola stessa prepotentemente suggerisce.
Per non annoiare chi legge, ci limiteremo in questa sede a sottolineare soltanto l’inestimabile valore che la spirale ha ricoperto nel pensiero occidentale, dai pensatori ellenici fino alla contemporaneità. La spirale, ad esempio, ha da sempre riscosso grande interesse geometrico (cfr. Sulle Spirali, Pitagora) ed è simbolo energico di abbondanza, di rigenerazione ininterrotta e di maternità fertile (cfr. Il Linguaggio della Dea, Gimbutas M.).
Abbiamo fino ad ora mosso i passi nel sommo campo di inchiesta umana quale è quello della Metafisica, per poi considerare anche il non meno degno campo della Geometria. Ci sia concessa dunque la libertà di discendere molti gradini nella scala delle Discipline.
Da un punto di vista puramente gastronomico, chiunque si sia anche in minima parte dedicato alla preparazione del proprio pasto, avrà certamente avuto esperienza di quanto si andrà ora ad esporre. Le penne, in virtù della loro forma tubolare che richiama (in assonometria cavaliera) un parallelogramma, soffrono di una malattia che non può, per così dire, essere in alcun modo curata. Se in fase di scolatura della pasta il cuoco non presta la dovuta attenzione, vuoi per inesperienza o per trascuratezza, il risultato è, aimé (alas, appunto), un inevitabile ristagno interno. Le penne, simili a tubature neglette, permetteranno nel loro ventre la stagnazione delle acque, con conseguente ed ovvio impaludamento. Soltanto al primo incontro con la forchetta i liquidi defluiranno dalle due estremità, in un’immagine che non può che risvegliare nella memoria collettiva la desolante scena degli ultimi acquedotti romani, abbandonati e in rovina dopo l’improvviso tracollo dei fasti dell’impero. Ed ecco che la reazione che ne risulta non può far scaturire nell’osservatore esterno che gran pena. Tutto sembra ripetersi con precisa circolarità, difatti ci avviamo al termine della nostra dissertazione.
Sulla riva opposta del denso fiume delle acque di cottura, troviamo il fusillo. Data la sua geometria, già largamente discussa e celebrata, esso impedisce spontaneamente il ristagno, rimanendo naturalmente e sistematicamente asciutto. Se dunque l’intento di chi legge è quello di arrendersi alle tenere promesse della pastasciutta, anche solo per assonanza lessicale, la scelta da compiere non potrebbe essere più palese.
Qualche ultima parola sia spesa a riguardo di ciò che alcuni amano definire indice di ritenzione (IdR, ndr). Per ritenzione si intende la capacità di trattenere il sugo con il quale eventualmente la pasta si accompagna, senza che esso percoli lentamente sul fondo del piatto, finendo per rimanere in quel luogo simile ad una pozzanghera estiva. Contrariamente a quanto un ingenuo potrebbe pensare, forse spinto da sciocca credenza popolare, la cavità delle penne, come largamente dimostrato da vari studi, NON si riempie di alcun condimento. Le penne acquisiscono così il tipico sapore acquitrinoso e sciappo (dal lat. săprus). Senza rischiare d’esser tacciati d’abuso retorico, potremmo dire che queste si sanno fondere al sugo tanto quanto la sabbia dell’Egeo si scioglierebbe nel latte di asina degli Urali.
I fusilli, al contrario, grazie ai loro spiriformi anfratti, ritengono felicemente ogni salsa a cui vengano accompagnati, in un’armonia completa e (di nuovo) universale. Così come le stelle s’annidano sfolgoranti lungo i bracci della galassia, il pomidoro al fusillo s’abbraccia in insolubile e definitiva stretta. Una totale e incondizionata fusione è ciò che chiunque può empiricamente osservare; del resto fusione e fusillo, all’occhio del navigato linguista, condividono la medesima radice.
E con ciò torniamo al punto di partenza del nostro ragionamento, sfoggiando un’estetica della dimostrazione che non può che essere indice di assoluta veridicità.
C.V.D.
In conclusione, a scopo bibliografico, sia citata l’autorevole nonché unica fonte per la nostra precedente dissertazione: si è tratta infatti voce dalla fin troppo ben conosciuta opera (De Rebus Naturae, ndr.) del poeta e filologo montefiorinese Medardo M. Boiardo (1195 Montefiorino – 1248 Диксон).
Accade anche che il titolo stesso sia tratto da una sua quartina, che troviamo nel De Rebus Naturae. Nel riportarla qui ci accomiatiamo infine dal Lettore, nella speranza che egli ci accolga nella memoria come farebbe con piacevole ricordo.
Per un sincer parlar sopr’ alla pasta
Al ver misera rima, aimè, non basta
Eppur l’opera mia qui e lì v’accenna
Di quanto stia il fusil sopra la penna
Massimo tre parole
Dove, armati di veridiche prove filologiche e supportati da illustre esempio, si mostra al Lettore quanto sia cosa infelice il conceder con avarizia il tempo agli scritti.
Recenti ricerche hanno permesso la riscoperta di alcuni scritti giovanili di Immanuel Kant; particolarmente interessanti sono gli studi del grande filologo Osvald M., massimo studioso dei diari segreti del filosofo tedesco. Riportiamo ora un breve estratto delle sue ricerche.
Il giovane Kant frequentò con grande profitto il collegio, tanto che si definì subito “il miglior allievo della classe”; quando poi la scelta del percorso universitario si rese necessaria, non esitò ad iscriversi alla prestigiosa università di Königsberg, anche perché, all’epoca, l’unica senza prove di ammissione.
Il primo anno, come possiamo leggere nei suoi diari, fu superato senza eccessive difficoltà, se si esclude una ripetuta bocciatura all’esame di Storia della Filosofia Contemporanea. Anche il secondo anno di studi procedette senza intoppi e con risultati eccellenti. Durante il terzo anno viene invece registrato un evento particolare, che intendo qui approfondire, anche a vantaggio delle nuove generazioni di studenti.
Nei mesi di novembre e dicembre 1743, il giovane Immanuel studiava assiduamente in vista dell’esame a scelta da lui selezionato per la sessione invernale: “Logica ed etica nel pensiero kantiano”. Quando giunse il momento di presentarsi alla prova, Kant si sentiva decisamente preparato e sicuro di sé; del resto l’esame riguardava la sua stessa filosofia, come avrebbe mai potuto non superarlo? Questo consisteva in uno scritto di dieci domande, per ognuna delle quali erano disponibili dieci righe, da completarsi in 60 minuti. Sedutosi al banco e impugnato il pennino, lesse i quesiti e li trovò estremamente facili.
Quesito numero uno: Si descriva, in massimo dieci righe, la concezione kantiana dell’etica e in che modo essa si relazioni con ciò che nel sistema si definisce “idea”. Si giustifichi la risposta con opportune citazioni dalle principali opere di Kant, con relativo commento ed analisi linguistica. Si esponga poi come quanto detto possa essere inscritto in un ragionamento più ampio, che consideri anche la sua definizione di “categoria”, la sua attitudine rispetto alla logica e le altre discipline da lui studiate, supportando il discorso con valide argomentazioni; non si dimentichi infine di tracciare un quadro storico-politico-sociale dell’epoca.
Di simile natura i restanti nove quesiti.
Il giovane Immanuel cominciò di buona lena a rispondere, ma si accorse ben presto di come qualcosa non tornasse. Dopo venti minuti stava ancora delineando l’orizzonte storico-politico-sociale richiesto nel primo quesito, senza aver minimamente affrontato gli altri punti. Quando poi, dopo mezzora, terminò quell’impossibile sintesi, si accorse di avere a disposizione una riga soltanto per affrontare il resto del quesito numero uno. Cercò allora di recuperare disperatamente il tempo perduto e si tuffò a capofitto nella seconda domanda, tentando in ogni modo di condensare la sua stessa concezione di metafisica, corredata ovviamente da citazioni delle opere che lui stesso aveva partorito, in meno di cinque righe. Così, quando il professore, frustrato forse da una carriera accademica non particolarmente brillante, annunciò che bisognava appoggiare il pennino e consegnare gli scritti, il povero Kant era riuscito a completare soltanto i primi 6 quesiti, abbozzando qualche frase sconnessa nel settimo. Massimi furono il suo sconforto e la sua frustrazione.
Quando, una volta che anche il secondo appello fosse trascorso, il professore decise di pubblicare gli esiti del primo, il giovane filosofo scoprì di aver ricevuto diciotto e pianse lungamente.
Il giorno della visione dei compiti si recò in università e attese il suo turno; quando finalmente fu chiamato a prendere il suo elaborato, sul quale era stata pasticciata in rosso la sufficienza, volle chiedere umilmente spiegazione al professore, il quale prontamente gli rispose: «Signor Kant, intanto il tenore polemico della vostra richiesta vìola irrispettosamente la mia persona, dunque vi invito ad adottare un tono differente quando vi rivolgete a me. Per quanto riguarda il vostro scritto, posso soltanto asserire che voi della filosofia kantiana avete assimilato ben poco, per non dire che non ne avete capito davvero nulla. Sapete come definirei il vostro lavoro? Eh, lo sapete? Superficiale, non avete approfondito nessun dei concetti richiesti; vi siete limitato ad accennare vagamente alcuni punti, dimostrando tra l’altro scarsa attitudine alla materia. Consentitemi infine di dire che voi, in qualità di non frequentante, non meritereste un voto migliore neppure se lo scritto lo fosse. Vi invito a ripresentarvi quando avrete studiato Kant seriamente».
Allora Kant, che si sforzava di trattenere le lacrime, osò accennare alla scarsità di spazio e di tempo a disposizione e all’impossibilità di elaborare, scrivere e addirittura pensare in quelle condizioni. Non l’avesse mai fatto! Subito l’altro montò su tutte le furie, urlando «Voi non vi dovete permettere di criticare il mio lavoro di insegnante, è CHIARO? Voi state mettendo in discussione quello che un consiglio di docenti con secolare esperienza nell’insegnamento ha stabilito. Vi rendete conto della gravità della cosa? Se ho ritenuto che un’ora fosse sufficiente e così lo fossero dieci righe, voi non vi dovete neppure sognare di contestare ciò. Mi sono spiegato? Quando qualcuno conosce realmente ciò che ha appreso, non necessita di molto tempo per pensare, né di tanto spazio per scrivere. Se non avete voglia di studiare e intendete soltanto far polemica restatevene a casa. E ora andatevene, dall’aula e anche dall’università, se volete un consiglio da amico».
Se il lettore pensa che questa scena sia stata la più triste che il povero Kant dovette affrontare, si sbaglia grandemente. Quando infatti, tornato a casa, dovette confessare ai genitori il misero esito dell’ultimo esame, questi si adirarono ancor più del professore.
La madre, che gli aveva impartito una profonda educazione religiosa di stampo pietista, non ebbe nessuna pietà. Inutili furono i tentativi di Immanuel di riportarla alla ragione: «Madre, vi prego, come potete pensare che io non abbia studiato? Del resto l’esame riguardava me stesso, come accidenti mi si può ritenere superficiale nella conoscenza della mia stessa maledetta filosofia?» diceva lui mentre, iniziando ad accorgersi dell’assurdità di quella situazione, si andava scaldando.
«Non ti giustificare» gridava lei piangendo con il volto nascosto dietro ai palmi, «se non hai più voglia di studiare non inventare sporche menzogne almeno; inficia la tua media, ma non l’onestà della famiglia. Se avessi saputo di questo giorno, forse non ti avrei mai dato alla luce».
A quel punto intervenne il padre e, con voce ferma e minacciosa, disse «Immanuel, hai deciso di gettar via la tua carriera accademica, quella stessa che io e tua madre, con tanti sacrifici, ti abbiamo permesso di seguire. Ora ti appelli a scuse meschine, insultando la tua e la nostra intelligenza; non hai più rispetto di niente e di nessuno. Non sei più un uomo ai miei occhi».
Poi, essendo egli un ben conosciuto sellaio, non ebbe difficoltà a trovare un lungo laccio di cuoio e ne fece lungo uso sul figlio.
Gli studiosi moderni non sanno ancora dire se, alla fine di quella infelice scena, molte ore dopo, fosse più conciato il cuoio o il didietro di Kant stesso.
Va detto che il filosofo tedesco si laureò ugualmente, ripetendo l’esame con un altro professore che, dopo averlo interrogato in una prova orale, gli diede trenta e lode, complimentandosi per la conoscenza approfondita della materia.
Qualche anno più tardi divenne anch’egli docente universitario e cominciò a insegnare. Quando dovette preparare il testo dell’esame, il primo quesito recitava così:
Quesito uno di undici: Si descriva la storia del pensiero occidentale, prestando particolare attenzione agli aspetti storici e sociali intercorsi tra l’invenzione della scrittura e il secondo Illuminismo. Si giustifichi la risposta con opportune citazioni dalle principali opere scritte in questo periodo, con relativo commento ed analisi linguistica. Si esponga poi come quanto detto possa essere inscritto in un ragionamento più ampio, che consideri anche la filosofia scolastica, la storia delle religioni in generale e le metafisiche orientali, supportando il discorso con valide argomentazioni. Massimo dieci righe.
Tempo a disposizione: trenta minuti.
Non intendo ora esprimermi circa la morale di ciò che è stato qui riportato; eppure lasciate che vi chieda: quale insegnamento ritenete si possa trarre da tutto ciò?
Si scriva un significante elaborato di massimo tre parole.